Andrea Di Luigi, «In "Nuovo Olimpo" di Ferzan Özpetek ho dato voce a un amore profondo»
Text by GIULIA GILEBBI
Photography NICOLA DE ROSA
Styling SAMANTA PARDINI
Protagonista dell’ultima pellicola di Ferzan Özpetek "Nuovo Olimpo", Andrea di Luigi, ventisette anni, fa un esordio col botto. Uno di quelli che ogni aspirante attore sogna sin da bambino, perché il regista turco rientra, con Garrone, Sorrentino, Tornatore e Guadagnino tra i più ambiti del panorama italiano. Di Luigi ha affrontato ogni giorno di ripresa come una vera e propria scuola. Con lui sul set: Damiano Gavino, co-protagonista, Luisa Ranieri, Aurora Giovinazzo, Greta Scarano, Alvise Rigo, Giancarlo Commare e Jasmine Trinca. Un cast con esperienza, che non lo ha scoraggiato ma anzi, gli ha insegnato a non prendersi mai troppo sul serio. Ascolano di origine, tra lavoretti vari per mantenersi, Andrea studia e coltiva la grande passione per la recitazione, con la speranza di un'occasione fruttuosa. Arriva con il film di Ozpetek, che racconta la storia d’amore di una coppia omosessuale, negli anni ’70, che si cerca e rincorre per quasi trent’anni. Il racconto nasce da un'esperienza vissuta in prima persona dallo stesso regista. Doppia difficoltà e doppia responsabilità. Per Andrea però non è stato un grande ostacolo, per lui fare l’attore significa prestare e dare voce a storie che meritano di essere raccontate. Il film, presentato in anteprima alla diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, è distribuito su Netflix.
L'OFFICIEL HOMMES ITALIA: “Nuovo Olimpo” è il tuo debutto cinematografico. Come lo hai vissuto?
ANDREA DI LUIGI: Da un lato ho capito di avere qualcosa di grande tra le mani ed è stato bellissimo, dall’altro mi sono sentito la responsabilità di raccontare una storia delicata e sottile, e ben scritta. Ho cercato di dare il massimo, essere una spugna sul set e imparare qualsiasi cosa ovunque: dal reparto ostumi, agli operatori fino alla regia. Quando mi hanno preso per il ruolo, lavoravo come cameriere ho mollato tutto e mi sono trasferito a Roma.
LOHI: Che cosa ti ha lasciato il tuo personaggio?
AD: Per me è stato difficile tecnicamente in alcuni momenti,soprattutto il dover raccontare una storia dall’arco temporale così ampio e andare incontro all’invecchiamento e a una crescita emotiva importante. Così mi sono creato delle esperienze immaginarie, anche quotidiane, in cui sia io che il mio personaggio potessimo ritrovarci. Ferzan ci ha aiutato molto e ci ripeteva spesso “Non voglio che voi vi avviciniate a personaggi, ma che loro si avvicinino a voi".
LOHI: E con Őzpetek com’è andata?
AD: Una delle cose che mi ha colpito maggiormente è la sua apertura all’improvvisazione e la capacità di stravolgere una sceneggiatura continuamente, anche il giorno stesso del girato. È un regista che ti sprona a essere sempre concentrato e sul pezzo e allo stesso tempo ti lascia libero di mettere qualcosa di tuo. Questo suo coraggio, in un certo senso, e consapevolezza del mestiere mi ha affascinato.
LOHI: I protagonisti si conoscono negli anni ’70, crescono, cambiano e si rincorrono per trent’anni. Oggi è tutto diverso, dalla conoscenza alla frequentazione…
AD: Il mio personaggio e quello di Damiano hanno l'urgenza di legarsi l’uno all’altro ed essere presenti. Negli anni ’70 non c’erano Instagram o i cellulari, e questo presupponeva il mettersi in gioco - fare di tutto per vedersi, giochi di sguardi infiniti, andare fin sotto casa o imbattersi in finti incontri casuali- e portare qualcosa di te all’altro. È una modalità di conoscenza più affascinante e non filtrata. Non esiste la possibilità di essere qualcosa di diverso da se stessi. L’iper connessione ci fa perdere la qualità dello stare insieme quando si sta insieme.Sei con qualcuno e al contempo puoi essere in un altro posto,anche non reale, o addirittura con altre persone.
LOHI: È stato complesso immedesimarsi nei panni di una coppia omosessuale?
AD: Per me è stato abbastanza naturale, non mi sono neanche posto il problema. Io e il resto del cast siamo stati chiamati a dare voce e giustizia a un amore profondo. Questa era la vera difficoltà.
LOHI: Com'è andata con gli altri attori sul set?
AD: Non avevo mai lavorato con professionisti così navigati e non avevo idea di come mi sarei trovato ad interfacciarsi con loro. Ho scoperto una umanità e semplicità splendida, dal parlare della vita di tutti i giorni fino alle questioni più tecniche del film, dalla lettura del copione, alle riprese. C'è stata collaborazione e l’idea condivisa di non prendersi mai troppo sul serio, fondamentale per affrontare anche le parti più delicate del lavoro. Mi mancano quei momenti.
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