Le "Double Vision" di Robert Wun e Roberto Capucci
Celebrati in due mostre in contemporanea, "Metafore" in Triennale a Milano e "Robert Wun: Between Reality and Fantasy" al Scad Fash museum di Atlanta, Roberto Capucci e Robert Wun hanno un amore in comune per i plissé e le forme architettoniche. E condividono una dedizione totale al mestiere di couturier.
Roberto Capucci, indiscusso maestro italiano della couture ammirato anche da Christian Dior, disegna incessantemente, anche oggi che ha 92 anni. Animo delicato e volontà di ferro è un creatore di sogni, di quelli che nel tempo hanno conquistato icone come Jacqueline Kennedy, Marilyn Monroe e le signore della famiglia Agnelli. Robert Wun è nato a Londra e cresciuto a Hong Kong. Nonostante sia di 60 anni più giovane, condivide con Capucci la stesso approccio alla moda e allo stile senza compromessi. Talento indiscusso, Wun ha imposto al mondo la sua visione subito dopo la laurea, con una collezione di debutto notata dai buyer di Joyce, department store di Hong Kong che gli hanno trasmesso una giusta iniezione di fiducia per decidersi a lanciare la sua collezione eponima, indossata nel tempo da Lady Gaga, Erykah Badu, Cardi B e Tessa Thompson. Entrambi disegnano abiti ricchi di significato, capaci di trasportare chi li indossa in una dimensione altra, magica. Volumi grandiosi e forme strutturate raccontano la passione infinita di Capucci e di Wun per il plissé. La Triennale di Milano dedica al couturier italiano la mostra “Metafore”, a cura di Gianluca Bauzano. Inaugurata il 17 novembre e visitabile fino al 9 gennaio 2022, svela le narrazioni metaforiche che scaturiscono dalla mente di Capucci. Anche l’inglese è protagonista della sua prima personale “Robert Wun: Between Reality and Fantasy”, allestita presso lo Scad Fash Museum di Atlanta fino al 24 aprile 2022. Il pubblico avrà l’opportunità di vederne i pezzi più rappresentativi.
ROBERTO CAPUCCI: Mi farà delle domande di moda?
L’OFFICIEL: Certo Signor Capucci.
RC: Allora c’è un problema perché io non so nulla di moda, non sono in contatto con quel mondo.
LO: E se allora parlassimo della sua moda?
RC: Non esiste la “mia” moda. La moda è di tutti.
LO: Forse potremmo iniziare con le due mostre dedicate a ciascuno di voi. Robert, Roberto che effetto fa osservare il proprio lavoro dentro a un museo?
ROBERT WUN: Per me è surreale. Quando vedi le tue collezioni presentate in una forma che non è quella a cui sei abituato come fashion designer, metti la tua carriera in prospettiva. Di norma noi pensiamo per stagioni, mentre lì ti trovi tutto davanti e ti dici: “Oh, ecco di quanto sono cresciuto”. E riesci anche a capire se quello che fai ha ancora senso, rispetto a a quanto hai prodotto prima. Ogni studente di moda, quando inizia, frequenta le mostre degli stilisti e io non ero l’eccezione. La mia prima exhibition fu quella di Viktor & Rolf al Barbican a Londra. Ricordo ancora come erano riusciti a condensare in una sola stanza 25 delle loro collezioni e ora sta accadendo a me. Mi sento davvero grato.
RC: Ho 92 anni e ho fatto tante di quelle mostre, in Russia, in Cina, praticamente in ogni parte del mondo. Sono state tutte molto eccitanti, ma invecchiando non vado più alla ricerca di emozioni. Cerco la verità.
LO: E quale verità ha trovato finora?
RC: Ognuno di noi dovrebbe fare solo quello che gli è congeniale.
LO: Pensate di aver raggiunto quel tipo di libertà?
RW: La mosta allo Scad credo dimostri che non mi sono mai lasciato distrarre da ciò che amo. Sono riuscito a restare fedele alle mie vere passioni.
RC: Quando ho iniziato nel 1951, i couturier di solito arrivavano da famiglie di sarti, ma non era il mio caso. Ho studiato arte e il confronto con i vestiti è stato un riflesso della mia preparazione culturale. L’idea di abito jolie madame non ha mai fatto per me, non ho mai amato quei pretty dress per pretty ladies e non ne ho mai fatti.
LO: Quanto è difficile non fare parte del sistema?
RC: La stampa italiana in principio non mi amava. Secondo loro la mia era una visione scandalosa, la prendevano come un oltraggio. Non riuscivano a capire che quello era il mio modo di rendere omaggio alle donne. La creatività non può essere costretta quando stai cercando di innovare e poi la mia clientela amava i miei vestiti: li facevo perché li vendevo! Ho sempre disegnato per vendere, non è mai stato un mero esercizio di stile.
RW: Il sistema può essere un grande ingannatore, boccia chi sta solo cercando di essere creativo e fare ciò che davvero vuole: bisogna sacrificare molto per poterne fare parte. Se non appartieni a un determinato gruppo, il sistema ti fa sentire che non sei il benvenuto per via del tuo background, o della tua provenienza o di dove ti sei laureato. Non ho mai detto che non sarò parte del sistema, solo non voglio sacrificare l’integrità di ciò che sono e cosa faccio pur di entrarci. Sono fiero di non avere avuto bisogno del sistema per arrivare dove sono ora.
LO: Qual è lo scopo principale del vostro lavoro?
RC: Come ho già detto, non è mai stata una questione di creare delle forme graziose. Sono sempre stato connesso all’idea dell’inimmaginabile, ho sempre inserito qualcosa di imprevedibile. Ho usato bamboo, plastica, pietre quando nessun altro lo faceva. Le mie clienti mi hanno viziato perché amavano quello che proponevo e mi hanno dato fiducia in me stesso. Non ero pazzo.
RW: Quando ho lanciato il mio brand non mi sono fatto tante domande sul perché. Semplicemente era in tutto e per tutto quello che volevo fare. Dovevo far uscire dal mio sistema quello che avevo in testa, senza badare alla direzione, all’ambito, al punto di vista. Tutti possono rendere le persone bellissime con i propri vestiti, ci sono fantastici designer commerciali in giro. Però se devo mettere il mio nome su di un’etichetta, devo essere io, senza compromessi. Ho capito che voglio offrire ciò che penso sia la moda: la costruzione, l’immaginazione, il sogno che puoi ancora raggiungere. Escapismo, futurismo e femminismo sono tre elementi su cui mi concentro sempre mentre sto disegnando. Quello che faccio semplicemente deve rappresentarmi e essere la mia immaginazione, deve essere originale. Questo è il mio unico scopo.
LO: Da dove traete principalmente ispirazione?
RC: Tutta la mia vita l’ho dedicata all’arte, alla natura, agli animali. Amo in particolar modo la natura perché ci dà tutto quello di cui abbiamo bisogno.
RW: Anche per me la natura è fondamentale e non intendo un paesaggio, piuttosto un bellissimo uccello nel mezzo della foresta. È qualcosa che cattura la tua attenzione perché è così originale, organico. Se penso ai miei vestiti, voglio che, sia che siano indossati da qualcuno o appesi a un attaccapanni, abbiano una forma organica, che parlino da soli, raccontandoti una storia. Come il Signor Capucci, amo le pieghe perché mi ricordano i pattern geometrici della natura, tipo le piume di un uccello. Il plissè da fluidità, il tessuto resta morbido, non “pigro”. C’è forza in loro, ma anche grazia.
LO: Entrambi avete vestito delle celebrities: qual è la cosa che vi piace di più di queste esperienze?
RW: Sono un grande fan di tutte le donne incredibili che hanno portato i miei abiti e probabilmente loro si sono riviste in ciò che faccio. Mi piacerebbe vestire Tilda Swinton, così chic in qualunque cosa faccia. E sogno anche di fare i costumi per uno dei film di Ridley Scott. Ha chiamato Craig Green per “The Covenant” e devo confessare che ero pazzo di gelosia. Ho già lavorato con Hollywood per “The Hunger Games” – un’esperienza resa semplice dal team di costumisti sempre pronti a condividere con me le loro idee. Eppure credo che sia un momento storico per ogni designer quando ha l’opportunità di tuffarsi in film leggendari come quelli di Scott.
RC: Pratricamente tutte le star hanno indossato le mie creazioni con poche eccezioni come Gina Lollobrigida, che proprio non era il mio tipo. O Monica Vitti, anche se nel suo caso lo rimpiango molto, perché era meravigliosa. Con Silvana Mangano ci siamo davvero trovati, era semplicemente perfetta. Ho anche disegnato i costumi per il film “Teorema” di Pier Paolo Pasolini di cui era protagonista insieme a Terence Stamp. In quell’occasione, scoprii la sua grande umanità. Ancora oggi nei miei schizzi il naso è quello di Silvana.
LO: Disegna ancora molto, Signor Capucci?
RC: Tutti i giorni come un matto, mi aiuta a sentire che mi sto gradualmente staccando dalla vita. Sono vecchio forse oggi, domani o dopodomani lascerò questo mondo. Lei crede nella reincarnazione? Io no. Finisce tutto e non mi preoccupo di essere ricordato.
LO: Ma lo sarà, lei è già nei libri di storia della moda.
RC: Non voglio lasciare nessun messaggio, ho solo perseguito l’idea di fare qualcosa di diverso, non i soliti vestiti.
LO: E tu, Robert, come vorresti essere ricordato?
RW: Un giorno, quando mi guarderò indietro, voglio poter dire che, anche se avessi fallito non avrei potuto fare le cose diversamente. Spero che la gente, guardando il mio lavoro, possa vedere un tipo testardo che ha continuato a fare quello che voleva fare. Sono un ragazzo normale che in qualche modo ce l’ha fatta anche se non c’entrava niente col resto.