Lily Collins in conversazione con Alber Elbaz
Quando Lily Collins è arrivata a Parigi, più di un anno e mezzo fa, per iniziare a girare “Emily in Paris” - la serie Netflix dispensatrice di buon umore e diventata da un giorno all’altro un mega successo -, la città non era come se l’aspettava. Nata nel Surrey, ma cresciuta a Los Angeles, la figlia di Phil Collins era da tempo una francofila convinta, ma una volta tornata nella capitale francese per interpretare Emily, una americana desiderosa di conquistare il mondo dell’alta moda, la città sembrava avere abbassato i toni. La calura d’agosto aveva convinto molti parigini a puntare su vacanze a Biarritz o in Provenza, così Collins e la troupe si erano trovati in una specie di mondo a sé. Grandi occhiali ovali e un’allegria imperturbabile, Alber Elbaz aveva vissuto un’esperienza simile quando si era trasferito nella capitale della moda da New York. «Dove sono tutti? Continuavo a domandarmi», ricorda Elbaz, che aveva attraversato l’Atlantico per lavorare da Guy Laroche a metà degli anni ’90. Poi, per lo stilista, era stata la volta di Yves Saint Laurent e di Lanvin, dove ha lasciato il segno ridefinendo l’universo del brand e della moda donna come la conosciamo oggi. Caso ha voluto che lui fosse a Parigi l’estate in cui è arrivata Collins e grazie a un’amicizia comune che li ha presentati, i due hanno continuato a frequentarsi durante le riprese della produzione firmata da Darren Star. «A un certo punto mi sono chiesto se ero anche io parte dello show», dice ridendo Elbaz. Non lo era, però le connessioni strette tra i due erano tante. Molti mesi dopo, trascorsi tra record infranti e meme di internet, Collins ha temporaneamente messo da parte il suo baschetto; oggi non è più Emily e nemmeno la vecchia versione di sé. Fresca di ingaggio, l’attrice sta affrontando quella che potrebbe rivelarsi lo step più importante della sua carriera con “Mank”, il nuovo film di David Fincher che ripercorre la storia dello sceneggiatore di Citizen Kane, Herman J. Mankiewicz e la sua tristemente nota faida con il regista Orson Welles. Riservata ma mordace, Collins interpreta Rita, l’esile segretaria di Gary Oldman, che interpreta Mankiewicz e voce della ragione di fronte al trascurato caos domestico dello scrittore. Il film in bianco e nero era stato scritto da Jack, lo scomparso padre di Fincher, per celebrare i fasti della Hollywood dei tempi andati, grazie alla sua impeccabile regia. Dopo il suo addio a Lanvin, nel 2015, Elbaz si era deliberatamente tenuto ai margini dell’arena fashion, collaborando piuttosto sul fronte del beauty, delle calzature, anche di progetti cinematografici, fino all’attuale lancio in sordina di AZfashion, il progetto moda di cui ancora poco si sa, se non che è sostenuto dal gruppo Richemont. L’attrice e il designer si sono ritrovati per trasmettere entusiasmo sulle reciproche sfide, ragionare sulla creatività in tempi di quarantena e sulla gioia che verrà.
JOSHUA GLASS: “Emily in Paris” ironizza su diversi aspetti, ma di base lo show parla di cosa significa essere un outsider, che si tratti di un’industria, un punto di vista, un modo di essere. Che significato ha per voi?
LILY COLLINS: Nello show non c’è una scena trasformatrice in cui Emily entra in un camerino come Emily a Chicago e ne esce come Emily a Parigi. Rimane se stessa durante tutta la stagione, mentre cresce e impara. Ogni volta che io stessa vado su un set, che sia cinema o Tv, mi sento un po’ così, un pesce fuor d’acqua. È l’esperienza di approcciare un nuovo ambiente, non conoscere nessuno, mettere sul tavolo qualunque cosa per cui ti sia preparata, o ciò che tu pensi di essere. È stato interessante interpretare una giovane donna in un ambiente straniero, che si adatta pur restando fedele a se stessa. Penso che molta gente possa riconoscersi nella non voglia di cambiare ciò che si è pur di adattarsi a una certa situazione.
ALBER ELBAZ: La serie mi ricordava una specie di Cenerentola e “Pretty Woman”, che, devo dirlo, ho visto 55 volte. Per me il messaggio che passa è che alla fine paga essere buoni, perché tu, Lily, avresti potuto essere una stronza, e ci sarebbe stato, ma non l’hai fatto. La tua Emily è una brava ragazza con bei valori, che non capisce perché la persone non collaborino con lei o non la capiscano. Ho più volte vissuto da immigrato nella mia vita: sono nato in Marocco, cresciuto in Israele e poi sono andato in America. Il mio appartamento a New York era grande come un tavolo e lo condividevo con altre due persone, Muffin era il nome di uno di loro. New York la dovevi vedere con i tuoi occhi per comprenderla e quando sono arrivato, non ero solo un outsider, non ero nessuno.
JG: Nessuno avrebbe immaginato un successo così grande per la serie Tv, Lily al momento questo è il tuo ruolo più conosciuto. Alber, nella tua lunga carriera, ti è mai capitato di vivere un momento alla “Emily in Paris”?
AE: Un giorno ero a New York e vidi delle rose stupende. “Wow sono meravigliose”, dissi e il fiorista mi rispose: “Diciotto dollari”. Non avevo nemmeno chiesto il prezzo eppure quella fu la reazione. Qualche mese dopo ero a Parigi e mi imbattei in un altro negozietto. “Wow queste rose sono un incanto”, dissi al proprietario e lui rispose: “Si chiamano rose Piaget e crescono una sola volta all’anno. Le annusi, crescono nel sole”. Sono piccole cose che dimostrano le differenze tra le persone, le città, le culture. A Parigi hanno inventato i profumi, perciò c’è sempre una sensazione di sogno. Mi ricordo cosa diceva mia madre del profumo: “Annusalo e basta, non berlo mai”, ecco le sue parole.
LC: Non volere troppo di una cosa buona?
AE: Sì, e vale anche per il successo. Penso che uno dei più grandi pericoli del successo sia quando inizi a pensare di essere favoloso, fuori dal comune. Io me la tengo sempre a mente la storia del profumo e mi dico: “Non berlo il profumo, limitati ad annusarlo”.
JG: Entrambi state girando pagina su due capitoli molto importanti delle vostre vite. Lily, il tuo nuovo film “Mank”, diretto da David Fincher, debutta su Netflix questo mese. Alber, tu sei concentrato su AZfashion, il tuo nuovo progetto moda in collaborazione con Richemont. Come la vivete sul fronte emozionale?
LC: Non avrei mai pensato di riuscire a lavorare con David. Considero un dono l’idea che lui abbia creduto in me, prendere parte a un progetto di questo calibro è un sogno. David è un genio. Sa esattamente cosa vuole e come ottenerlo, ma è anche aperto alla collaborazione. Fare parte di tutto questo fa alzare il livello su cui ti eri settata. Le riprese hanno coinciso con quelle di Emily ed era un contrasto forte innanzitutto tra il colore e il bianco e nero, tra l’ironia e una drammaticità senza fronzoli. Fare avanti e indietro tra Parigi e Los Angeles era stancante, ma mi sentivo così realizzata dal punto di vista creativo.
AE: Per ogni artista, la pagina bianca è la faccenda più difficile da affrontare. Non so come funzioni con la recitazione, Lily, ma a volte mi sembra che ciò che faccio sia simile alla nascita di un bambino. All’inizio non è proprio una cosa tipo: “Oh wow, la vita è fantastica”, piuttosto è un: “Ahi, ahi, ahi”, ma poi viene fuori e ti dimentichi della sofferenza. La cosa davvero difficile è lasciare andare quello che hai costruito. Dopo Lanvin ho deciso di non fare moda per un po’ di anni, perché non ne ero più innamorato, eppure era l’unica cosa che sapessi fare. Non so manco guidare la macchina, non potrei neppure fare il tassista! Ho ricevuto tante offerte dalle grandi Maisons, e non volevo fare la diva, è che proprio sentivo che non avrei potuto ricominciare molto presto. Ho iniziato a insegnare, andando in tante incredibili scuole in giro per il mondo e ho capito cosa sarebbe arrivato dopo, la direzione verso cui il mondo stava andando, naturalmente prima che arrivasse il covid-19. E poi ho firmato con Richemont, ho dato il via a questa start-up.
LC: Innanzitutto congratulazioni, è fantastico, anche ne sappiamo così poco. Sono curiosissima, c’è qualcosa che ci puoi svelare?
AE: C’è una gran differenza tra creare e ricreare, in passato spesso il mio lavoro è stato non solo un ricreare, ma un “rimpiazzare”. Questa volta ho voluto iniziare da zero, ho osservato le donne in questi ultimi cinque anni, ho fatto attenzione a tutto quello che stanno affrontando, a come sono cambiate le loro vite. Ho sempre detto che se fossi stato un produttore di Hollywood, il prossimo James Bond l’avrei trasformato in Jane Bond, e non avrei scelto una ex modella ma una donna in gamba, senza badare a età e taglia, perché davvero non contano. Guardo a come vivono le donne oggi, le vedi correre in dieci direzioni differenti mentre cercano di essere la migliore madre, moglie, collega... Ho capito che dovevo trovare una soluzione; proprio quello che sto facendo ora, introducendo nuove tecnologie, ma anche cercando di andare un po’ più in profondità, senza fermarmi a definire un look favoloso. Cerco di ascoltare le donne per capire cosa posso fare per dar loro quello che stanno sognando, perché in fin dei conti non viviamo in un mondo fatto solo di algoritmi e big data, o di istinto ed emozione. Possiamo metterli insieme, come yin e yang. Non si tratta di scegliere questo o quello, ma di unirli.
JG: Come ci si sente a lavorare su progetti così significativi, mentre il mondo non è mai stato più diverso da come l’abbiamo conosciuto?
LC: Per me - in verità per tutti quelli del settore - è stato interessante quanto è emerso durante la quarantena, una sensazione che ho amato, pur nel suo essere così differente. Mi è mancata la socialità, fare un servizio fotografico, stare con la gente, eppure è stato davvero bello vedere l’allegria e le risate che Emily ha portato a così tante persone. È andato in onda quando la gente aveva più bisogno di ridere. D’altra parte la quarantena è stato un ottimo strumento per separare la mia vita privata da quella professionale. Mi sono fidanzata durante la quarantena e anche se c’era “Mank” in uscita, non sono dovuta subito partire e stare via settimane per i press tour. Ho potuto parlare del film, di cui sono così entusiasta, da casa e portare a spasso il mio cane subito dopo. Conto sui miei amici, sulla mia famiglia e in qualche modo anche su di me perché mi riportino con i piedi per terra, se mai mi venisse in mente di “bere il profumo”. Stare a casa e vedere “Emily in Paris” trasformarsi in un fenomeno globale e inaspettato, senza che questo fagocitasse tutto il resto, è un’esperienza che mi ha reso più umile. Come hai detto tu, bisogna continuare ad annusare.
AE: Rapportarsi con il covid è stato così difficile, deprimente e orribile, sotto ogni punto di vista. Chi avrebbe immaginato che avremmo dovuto indossare delle mascherine e pulirci le mani con l’alcol. La cosa che mi manca di più è essere abbracciato e poter abbracciare gli altri, non chiedo di sedermi in un caffè, mi basterebbe il contatto fisico. Sono un ipocondriaco di lungo corso, perciò non è stato facile, eppure credo che questo momento ci porterà altrove, è una specie di detox che ci costringe non solo a cambiare, ma a farlo in fretta.
LC: È stata un’esperienza così intensa di introspezione e di crisi identitaria. Può fare paura, specie se devi guardarti dentro e confrontarti su cose di te o del tuo futuro, come non avevi mai fatto prima. Ogni giorno ti trovi di fronte a uno specchio metaforico: chi sono? cosa voglio davvero? Cosa sto facendo per ottenerlo? Cosa mi rende felice da matti? A parte questo, abbiamo avuto modo di riflettere sui grandi temi del mondo, dal covid, al Black Lives Matter, o alle recenti elezioni politiche in America. Abbiamo avuto così tanto tempo fermi e tranquilli che alla fine di tutto credo ci sarà una specie di Rinascimento, la gente muore dalla voglia di essere creativa.
AE: Ho da poco letto che Roberto Benigni ha dichiarato che la povertà è la migliore eredità che si possa ricevere. Credo che stiamo tutti sperimentando un senso di povertà oggi, perché ci mancano molte cose, l’amicizia, la gente, la famiglia, il lavoro. Lily, il fatto che tu abbia trovato l’amore della vita durante la quarantena è così simbolico, perché vi siete incontrati quando eravate davvero voi, niente abbellimenti.
LC: La cosa interessante è che Charlie (McDowell) ed io ci siamo incontrati appena prima di “Emily in Paris” e ci siamo fidanzati a settembre. Mi sembra che la quarantena abbia fatto saltare diverse coppie, ma nel nostro caso il tempo passato insieme ha solo rafforzato quello che già sapevamo l’uno dell’altra. È proprio come hai detto tu, sento che tutti in questi mesi sono stati ciò che sono davvero, perché non ci sono distrazioni esterne. Tutti quanti stiamo tornando all’essenza di ciò che siamo, senza le stratificazioni della società. Quando vedi qualcuno nei suoi momenti migliori come in quelli peggiori e ci resti insieme, credo sia una cosa meravigliosa.
AE: Lily, lo sai che ho disegnato 32 abiti da sposa?
LC: Non ci credo.
AE: 32, e 31 sono ancora sposate.
LC: Oh mio Dio.
AE: Faresti bene a chiamarmi, se ti serve un abito!
JG: Per concludere questa conversazione, c’è una domanda che vorreste rivolgervi a vicenda?
LC: Alber, lo so che mettere in piedi un’avventura come AZfashion fa paura e mette alla prova i nervi, però dev’essere eccitante: sei emozionato?
AE: In quanto attrice sono sicuro che tu viva momenti in cui sei sul set, circondata di gente che ti dice: “Oh wow, è fantastico”. Dentro però noi ci domandiamo, è davvero fantastico? Capiranno il messaggio? Se ne innamoreranno? Perché se non ameranno quello che faccio, non ameranno me. Siamo diventati il ciò che facciamo, qualunque cosa sia. Perciò sì sono molto eccitato. Sai, non sono un tipo da vacanze, odio andare in vacanza, odio la sabbia, non sopporto le barche, perciò quando ho iniziato, il primo giorno in cui ho messo piede nel nuovo ufficio mi sono detto: “Oddio, è appena iniziato il mio primo giorno di vacanza”, ed è proprio così.
LC: Che fantastico modo di pensare. Sai, sei una delle persone più amate nel tuo mondo - e nel mondo - e tutti, me inclusa, facciamo il tifo per te. Hai parlato del carattere di Emily, che è così buona e affettuosa e fedele a se stessa, ma quello sei tu Alber. Nonostante tutto e a prescindere dagli ostacoli che ti si possono parare davanti, tu sei tu. Sono così entusiasta di vedere cosa ci proporrai ora, perché tu fai sempre la differenza e rendi le donne forti, le fai sentire bene con se stesse.
Foto Sam Taylor-Johnson
Fashion Jay Massacret
Hair Kylee Heath
Makeup Fiona Stiles using Lancôme
Prop Stylist Christopher Katus
Production Viewfinders
Casting Lauren Tabach-Bank