Interviste

Oltre gli occhiali da sole: Kuboraum

Maschere sculturali: il progetto Kuboraum di Livio Graziottin e Sergio Eusebi trasforma gli occhiali in maschere/scultura. Per mettere in mostra le differenti personalità di chi li indossa. E ancora sperimentazione con Innerraum, con la fanzine Kuboraum Journal e la Digital Sound residency.

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Livio Graziottin e Sergio Eusebi si sono conosciuti nel 2009 a Berlino durante una cena nella galleria d’arte di un amico comune. Nel giro di poco tempo le prime collaborazioni per poi arrivare tre anni dopo al lancio di Kuboraum e degli occhiali Eye-Couture. «Abbiamo riqualificato l’occhiale, non vedendolo più solo uno strumento o un oggetto d’uso quotidiano, ma riconsiderandolo come una maschera». Da qui, l'intervista sul numero di giugno de L'OFFICIEL ITALIA in cui abbiamo cercato di raccontare la loro visione del mondo.

Photography: Menhir Studio

L'OFFICIEL ITALIA: Il termine occhiale, nel vostro caso, è impreciso: usate il termine “maschere”…
KUBORAUM: Un occhiale è un’opportunità; noi pensiamo di fare occhiali non solo per vedere: un occhiale è la cornice di tutte le nostre espressioni e stati d’animo, oltre ad essere il primo strumento che possiamo utilizzare per rappresentare l’idea che abbiamo di noi stessi in un dato momento. L’occhiale è l’occasione che abbiamo per giocare con noi stessi e rappresentare una delle nostre molteplici identità che vogliamo evidenziare. Facciamo l’esempio di un supereroe: questo ha determinate capacità straordinarie, ma è solo quando usa la maschera per evidenziare il fatto di essere dotato di speciali capacità che queste vengono mostrate al mondo.

LOI: Abbiamo visto un paio di Kuboraum al MET su Bad Bunny. Sono molte le celebrità che indossano i vostri occhiali, c’è qualcuno che incarna perfettamente la vostra estetica?
K: Le nostre maschere sono per persone che hanno carattere, persone forti. Da Oprah Winfrey a David Lynch, Madonna, Lana Wachowski, Renato Zero, Sharon Stone, Travis Scott… In comune hanno tutti il fatto di essere persone con grande carisma.

LOI: Nel 2019 arriva anche INNERRAUM, da dove arriva la volontà di voler estendere l’accessorio?
K: Anche in questo caso la visione del marchio si basa sull’oggetto di uso comune, ma con una visione artistico/filosofica. Quando un oggetto riesce a non essere più solo un oggetto? Quando riesce attraverso il suo sex appeal inorganico a tessere una trama da connetterci e in un certo senso sedurci.

LO: I vostri sono definiti occhiali “couture”. Avete mai pensato di portare la couture anche nel mondo INNERRAUM?
K:Con Kuboraum abbiamo lanciato il concetto di Eye-Couture, utilizzando per la prima volta i principi e la manifattura tipici dell’Haute Couture nell’occhialeria. Innerraum in un certo senso ha l’approccio Couture già nel suo DNA, perché ogni oggetto è composto da pezzi che vengono forati, rivettati e assemblati a mano nel nostro laboratorio. Abbiamo dovuto creare proprio uno spazio per produrre Innerraum, perché sono oggetti così complessi da non riuscire a essere prodotti nella filiera della manifattura di borse.

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LOI: Entrambi i vostri brand sono intrinsecamente legati all’arte contemporanea, tanto che i vostri showroom possono essere praticamente considerati gallerie… come avete sviluppato questo concept?
K: Crediamo che nella vita tutto sia connesso e nulla possa esistere indipendentemente dall'altro. Qualsiasi cosa nell’ambito della progettazione di vestiti e accessori -che è fine a sé stessa e al proprio uso- è piuttosto inutile e priva di senso. Kuboraum e Innerraum nascono non dalla spinta di fare business, ma da un profondo, sincero e naturale bisogno di espressione, un bisogno di creare e comunicare. Tutto ciò che facciamo è contaminato dalle nostre vite, dalle persone che frequentiamo, dai luoghi che visitiamo e dalla musica che ascoltiamo. Non ci piace creare oggetti disconnessi dal resto, crediamo invece nel creare qualcosa che sia portatore di un'estetica profondamente intrecciata con la musica e la cultura.

LOI: Avete presentato a Venezia anche un nuovo progetto legato all’intersezione di arte e musica…
K: Lo scorso aprile, durante il weekend di apertura della 60esima Biennale dell’Arte a Venezia, abbiamo presentato la seconda edizione di ‘We Travel To Know Our Own Geography’, una manifestazione culturale di due giorni dedicato alla musica e all’arte performativa. Con l’accento ad artisti con i quali collaboriamo su Kuboraum Editions, abbiamo condiviso assieme ai nostri partner Terraforma e Combo e con un pubblico speciale tipico degli opening della biennale di Venezia le performance di alcuni degli artisti più ambiti nella scena della musica sperimentale contemporanea: Nkisi e Tiran Willemse, Labour, Valentina Magaletti, Canzonieri (Emiliano Maggi e Cosimo Damiano), alys(alys)alys, Lara Dâmaso, Emma DJ e Rainy Miller, Lord Spikeheart, Still b2b Low Jack.

LOI: Come cercate e selezionate gli artisti con cui decidete di collaborare?
K: Tutto nasce da un rapporto personale: un’amicizia, la condivisione di valori, linguaggi o visioni comuni. Sono e rappresentano l’espressione e l’affermazione di comunità.

Foto di Piercarlo Quecchia
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Photography: Piercarlo Quecchia

LOI: Oltre a Kuboraum Editions avete anche la vostra fanzine Kuboraum Journal, come nascono e perché?
K: Il percorso che stiamo facendo non è così facile da raccontare. Siamo stati antesignani nel rifiutare pratiche comuni di marketing, invece abbiamo letto l’occasione che avevamo per fare cultura attraverso un progetto curatoriale. Abbiamo cercato di sviluppare un discorso che diffondesse dei valori, un linguaggio, un’estetica, un suono e una cultura nella quale una comunità di persone potesse riconoscersi, implementando in un certo senso la cultura stessa nel nostro progetto. Abbiamo addirittura fondato il progetto editoriale Kuboraum Editions, con il quale produciamo edizioni di dischi in vinile e, in futuro, anche libri o edizioni che concepiamo come edizioni d’artista. È anche appena uscita in vinile la compilation da noi curata che raccoglie tutte le residenze d’artista musicali degli ultimi due anni, a cui abbiamo dato il nome di Digital Sound Residency. Ogni artista è stato chiamato a musicare una stanza digitale e virtuale del nostro sito con una traccia inedita che rispecchiasse la nostra narrativa. Il doppio vinile raccoglie le produzioni di Alessandro Adriani, Emma DJ, Lucy Railton, Mc Yallah & Debmaster, Moin, Quelza, Regis, Space Afrika, Labour, Valentina Magaletti & Zongamin, μ-Ziq, Ziúr. Abbiamo cercato di raccontare un'estetica inclusiva e diversificata attraverso collaborazioni con artisti del panorama della musica sperimentale contemporanea. Il nostro obiettivo era far sì che questa compilation suonasse come un album, avvicinando persone che generalmente sentono determinati generi a stupirsi nell’apprezzare generi ai quali normalmente non si avvicinerebbero. I social media e il nostro sito non bastavano più, ci sono sembrati un po’ stretti per raccontare tutto questo viaggio e la carta stampata rimane ancora, a nostro avviso, il luogo migliore dove potersi raccontare a un audience attento di persone che hanno ancora la passione per l’approfondimento.

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LOI:Negli ultimi due anni, abbiamo visto i vostri pezzi nelle sfilate di Watanabe. Com’è nata la collaborazione con il brand? 
K: Fino a due anni fa abbiamo evitato di collaborare con marchi di moda, fatta eccezione per una primissima collaborazione con un marchio d'avanguardia giapponese, Julius: collaborazione nata anche da una profonda amicizia che dura ancora oggi e da interessi comuni in campo musicale! Da allora, per anni non abbiamo mai preso parte a collaborazioni con altri brand di moda, poiché abbiamo preferito contaminare il nostro lavoro attraverso collaborazioni con artisti del panorama musicale e artistico contemporaneo. Tuttavia, nel profondo del nostro cuore, abbiamo sempre saputo che se ci fosse stato un solo marchio di moda con cui saremmo stati sempre disponibili a collaborare, sarebbe stato Junya Watanabe e l'intero gruppo Comme des Garçon. Siamo sempre stati fan e loroper noi un esempio: nel loro modo di vedere, di progettare, di essere, di pensare, di comunicare, di fare squadra, di fare impresa e soprattutto nella loro capacità di restare sempre in un certo senso distaccati dalle dinamiche della moda legate alle stagioni e alle tendenze. Watanabe, in un certo senso, è stato uno dei pionieri del nostro metodo di lavoro, mediante la reinterpretazione, la decostruzione e l’assemblaggio e il padre delle collaborazioni.

LOI: Un aspetto in comune con il marchio è sicuramente la ricerca sul materiale. A cosa ci siamo ispirati per l’ultima realizzazione?
K: L’ispirazione non arriva mai dalla moda, ma dalla vita di tutti i giorni e soprattutto dal nostro background culturale. Non crediamo che la semplicità ci appartenga; in un certo senso, pensiamo che la perfezione sia un orrore e che, in generale, la vita sia abbastanza complessa, e ciò che facciamo riflette in maniera naturale ciò che viviamo.

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