Nan Goldin: The Ballad
Scappata di casa a quattordici anni. Qualche mese dopo essere stata cacciata da scuola per aver fumato erba o cose simili. Tre anni dopo il suicidio della sorella - come ha scritto nell’introduzione a The Ballad of Sexual Dependency. Iniziata negli anni Ottanta The Ballad è l’autobiografia di Nan Goldin, il suo diario, intimo e corale, che parla di fragilità, della tensione continua fra l’individualità e il bisogno di relazione, di dipendenza, delle persone scomparse mai dimenticate. Fermare tutto in pellicola, questa è la sua missione, forse c’entra con quello che ha detto durante un’intervista su sua sorella, che non la ricordava più realmente, ricordava solo la sua versione, non qualcosa di tangibile, non i suoi occhi, i suoi baci, la sua voce. Più di settecento immagini in sequenza filmica per una durata di 45 minuti, accompagnate da una colonna sonora che spazia dal punk all’opera, cercano di evitare proprio questo tipo di mancanza, cercano di uncinare, afferrare, tenere in un morso costante la vita. Un susseguirsi d’immagini che raccontano sesso, droga, amicizia, solitudine, incuranti della bella forma, immediate, istintive. L’artista fotografa se stessa e le vicende dei suoi compagni, a Boston e a New York tra gli anni ’70 e ’80. Relazioni fra donne e uomini, uomini e uomini, donne e donne, donne con se stesse, bar, bordelli, auto, spiagge in Provincetown, ma anche Berlino, il Messico. Tutti i suoi posti dopo la fuga da casa, la fuga per liberarsi dal ruolo di figlia. E di sorella - per riscattarla, per fare quello che lei non avrebbe potuto vivere, dire quello che non avrebbe potuto esprimere. La Goldin ha reso famoso un certo modo di fotografare – questa smania di autenticità che, se si cerca di riproporre, risulta forzata, più inautentica delle cose “inautentiche”. La propria vita, pezzi della propria vita, possono essere definiti più autentici di una vita immaginata in sogno? La narrazione vince e tradisce sempre in qualche modo la realtà, nonostante la forma che si cerca di dargli. Ma alla Goldin questo all’inizio non interessava: ascoltava i Velvet Underground e aspirava a diventare una tossica, voleva entrare nella setta dei tossici, stare con loro dentro a una nuvola di nebbia piena di lustrini. Ha vissuto in comuni e in case di fortuna, girato sottoscala e attici con la sua Pentax in mano, senza lasciarsi scappare uno sguardo, un bacio, una voce. Nel 1974 iniziò a frequentare la scuola del museo d’arte di Boston insieme al suo amico omosessuale David Armstrong che la ribattezzò Nan (prima era Nancy). Lì scoprì i suoi colori grazie all’elettricità del flash con il quale ha impressionato le pupille di amici e conoscenti, della sua nuova famiglia mutante e multiforme. Perfino quando c’era luce naturale cercava di replicare l’effetto di quella artificiale. Perfettamente in linea con la sua vita, sincopata, fulminante, elettrica.
Valeria Montebello