#talkingwith Apparat
In attesa del suo djset del 28 Luglio in terra abruzzese, in occasione del Siren Festival, L'Officiel Italia ha intervistato Sascha Ring, classe 1978, meglio conosciuto come Apparat.
"Apparat": come mai questo nome?
Ho creato questo nome ormai tanto tempo fa, quasi non ne ricordo neanche il perché. Il mio amore per la techno è iniziato per caso: oggi è forse diventato troppo scontato, soprattutto se si considera la musica elettronica fredda.
Qual è stato il tuo set preferito? E qual è il tuo club/luogo preferito?
Non ho un club o un locale preferito, sono tantissimi e spesso dipende da cosa devo fare. Ci sono luoghi dove si respira la “clubculture”, altri dove è meglio fare (e vivere) concerti. Un bell’esempio è Parigi: sempre super concerti, il pubblico è fantastico, però se suono come DJ non è la stessa cosa, è completamente diverso dall’esibirsi in concerto. Non lavoro molto come DJ: per me è più un passatempo, un gioco. Sono tanto in giro con il progetto Moderat ed è tutto un altro mondo.
Il tuo legame con la moda?
In realtà è un amore-odio. Rientro nel classico look berlinese: total black, soprattutto Rick Owens, silhouette strette, over e maxi. Quello che mi infastidisce è che adesso questo stile è diventato in qualche modo l’oufit convenzionale per andare al Berghain.
Cosa troveremmo nella tua playlist?
In questo periodo poco: quando faccio musica per me, non ascolto nulla. Però adesso cominciano i viaggi e ho sistemato la mia playlist. Nella mia vita non ho mai ascoltato i Beatles; due o tre settimane fa, invece, ho scaricato “Sergeant Pepper’s” e ho pensato: “Faccio musica da tanto tempo eppure non so niente dei Beatles!” Ecco, finalemente, nella mia ultima playlist c’è anche “Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club”. Poi per esempio c’è il nuovo album degli “Slowdive”. Se facessi musica rock come loro, il mio album sarebbe esattamente così: molto melodico e con tanta chitarra. Mi sto anche dedicando alla musica hippie perché sto lavorando a un nuovo film con Mario Martone, un regista italiano con chi ho già collaborato, ma non posso ancora svelare troppo. Di recente ho anche scaricato un disco super “cool”: si chiama “A Crimson Grail” di Rhys Chapman, un compositore new yorkese di cui non avevo mai sentito niente, fa minimal music con uno stile “hippie”, a mio avviso. Insomma, ascolto tanto di tutto.
Tre parole per descrivere il tuo stile musicale.
Eclettico: suono stili di musica molto diversi tra loro. Melodico, perché ho sempre avuto un debole per la musica melodica e, ultimamente, psichedelico. Mi piacciono le frequenze che si ripetono, quelle che sembrano trasportarti in altri mondi.
Dove trovi i dischi che usi per i tuoi DJ set?
Da quando mi sono trasferito a Berlino, ormai quasi venti anni fa, vado sempre nello stesso negozio: esiste da almeno trent’anni e si chiama “Hard Wax”. È un negozio iconico, un vero simbolo della città.
Come ti prepari per i tuoi concerti?
Non suono molto come dj, per me è più un gioco e, proprio per questo, non sono abituato, quindi mi devo preparare dall’inizio per ogni show. Se lo fai molto spesso, per lavoro, due o tre volte a settimana, diventa una routine, per me è diverso: ogni volta seguo quasi un rituale e ho bisogno di almeno tre o quattro giorni per prepararmi e mettere in ordine le idee.
Grazie a programmi “user-friendly”, app e piattaforme, diventare DJ sembra molto semplice. Cosa ne pensi?
Spesso, e senza pensare, dico che non è molto difficile essere un DJ. C’è così tanta tecnologia ad aiutare che in fin dei conti ognuno può essere un DJ; questo non vuol dire però che chiunque possa essere un bravo DJ. Ciò che serve per sbancare in questo mondo è qualcosa che nessun programma può insegnare o simulare, ossia l’empatia: bisogna adeguarsi e capire il proprio pubblico, leggere la gente e interagire con il pubblico. Alla fine gli ingredienti sono due: talento e grande allenamento. E forse posso dire di aver più uno dell’altro.
@ Astro Festival