Musica

Róisín Murphy "Don’t stop dancing"

A 25 anni esatti dal debutto come voce dei Moloko, Róisín Murphy torna in scena e pubblica il suo quinto album solista “Róisín Machine”. Euforica e nostalgica, l’outsider del Pop rievoca con un tocco rétro i fasti della disco culture, in attesa del suo concerto in Italia nel 2021
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Il paradosso che stiamo vivendo vede risorgere dalle ceneri l’amore per la musica da ballo, proprio adesso che il ballo ci è precluso. Mirrorball e lustrini riappaiono però sotto forma di prodotti discografici, che vogliono riportarci coi piedi sul dancefloor, in risposta a un desiderio di libertà che oggi sentiamo più forte che mai. Un’esigenza di autodeterminazione che Róisín Murphy infonde attraverso il sound del suo ultimo album “Róisín Machine” (Skint/BMG). Un lavoro accurato che, per la cantante irlandese, ha iniziato a prendere forma quasi dieci anni fa quando il brano “Simulation” faceva capolino in rete dopo un lungo periodo di silenzio. Oggi quel pezzo riappare, ri-arrangiato, come opening track del disco, per chiudere un cerchio. “Róisín Machine” è un juxebox d’epoca con cui l’ex-Moloko passa in rassegna, con non poca nostalgia, il meglio della musica da ballo, decade dopo decade. C’è la disco music dei mitici ʼ70, i beat dei favolosi anni ʼ80, le sonorità sperimentali ed elettroniche dei ʼ90 più alternativi. Come recita espressamente il titolo, l’autrice si trasforma in una formidabile macchina del tempo indossando un make-up alla Siouxsie Sioux e ballando sulle note di “Sylvester”. Non è la classica operazione nostalgia, non è mero revival, ma una perfetta distorsione spazio-temporale del presente, che ci invita a non smettere di ballare.

Ogni tuo disco racconta una storia. Qual è quella di “Róisín Machine”?
Questo lavoro dà voce all’individualità di ciascuno di noi, nella sua accezione migliore, esprime l’orgoglio di essere sempre se stessi, nonostante tutto. È il culmine di una partnership durata anni con uno dei miei più fidati collaboratori, Crooked Man aka DJ Parrot. Attinge alla mia adolescenza, quando sono uscita di casa per tuffarmi nella “night culture”, la cui esplorazione ha coinciso con la scoperta di me stessa. È lì che ho cominciato a costruire qualcosa che non sapevo dove mi avrebbe condotto.   

La prima traccia dell’album, “Simulation”, è stata composta dieci anni fa. L’hai scelta per preservare una connessione con il tuo passato? E quanto c’è delle tue radici in questo disco?
Il progetto “Róisín Machine” ha iniziato a prendere forma dieci anni fa. Se fosse uscito allora avrebbe sicuramente viaggiato sulle stesse sonorità di Hercules & Love Affair o Azari & III, trascinato da quella rivisitazione in chiave house delle prime istanze dance music. La ricerca di un’identità attraverso la musica mi ha condotto altrove rispetto al punto di partenza, anche perché in questi ultimi dieci anni sono accadute cose incredibili. Penso ai recenti fatti di Chicago e di New York, che si riallacciano addirittura alla gay and black culture che negli Anni ʼ70 e ʼ80 ed è stata fulcro della scena clubbing. Il disco non è però uno sguardo rivolto al passato, ma piuttosto una visione al di là di ciò che è stato, che rende liberi di connettersi attraverso la musica a nuovi luoghi in cui potersi esprimere.   

Quanto è stato importante il clubbing nel tuo percorso personale e artistico? Alcuni inediti dell’album - penso a “Narcissus” e “Incapable” - rievocano chiaramente atmosfere disco funk tipiche degli Anni ’70…
Per la mia generazione o, meglio, per la mia “Gang” è stato letteralmente “life-saving”. Non è stato soltanto qualcosa di puramente edonistico, ma ha rappresentato l’esplorazione di sé, un processo in divenire che ci ha portato a conoscere nuovi modi di ballare e di ascoltare. Quasi religioso, a tratti, perché ci ha fatto sentire protetti.

Cos’è cambiato rispetto a quegli anni?
Quando tutto diventa così globalizzato è difficile mantenere vivo il filo conduttore. Oggi vediamo contesti in cui decine di dj si esibiscono contemporaneamente nell’arco di qualche ora. Mi riferisco ai grandi festival, ad esempio, che non hanno nulla a che fare con quello che ricordavo poco fa. Provo il massimo rispetto per i dj che, in particolar modo oggi, grazie alla tecnologia, riescono a fare magie con il solo tocco delle dita. Ma quando si andava a ballare per tre giorni consecutivi nella stessa settimana era la musica il vero motore di tutto e non la performance.   

“Something More”, malinconica ed essenziale, sembra quasi un inno da fine serata, quando tutti si abbracciano o alzano le mani al cielo…
L’ha scritta per me la cantante Amy Douglas e io la vedo come il canto del cigno della vita che eravamo abituati a vivere. Parla del desiderio di avere sempre di più dalla vita, che si scontra in realtà con una continua insoddisfazione. Amy mi ha inviato una demo semplicissima, solo voce e piano. La vera sfida è stata prendere la direzione giusta da un punto di vista musicale, con l’arrangiamento. La versione originaria era decisamente pop-funky. Sembrava funzionare prima del lockdown, ma quando è venuto fuori dai remix di Crooked un certo groove intenso e profondo, ho deciso di cambiare direzione. Mi è sembrato perfetto per il momento che stiamo vivendo. Stiamo attraversando tempi bui e questo pezzo è uno spiraglio di luce, il sole che sorge sulle note dell’ultima canzone di una serata passata a divertirsi.

HUSSEIN CHALAYAN Giacca dal taglio maschile in tessuto gessato con coulisse in vita. Orecchini personali di Roísín Murphy.


Hai plasmato “Róisín Machine” come un moderno manifesto della disco perché ciò che più ci manca oggi è poter tornare a ballare?
Da una lato c’è la danza pura. Possiamo ballare ovunque, io ad esempio lo faccio regolarmente nella mia stanza e al parco. Dall’altro c’è la “dance culture” che esige un luogo fisico per potersi esprimere. Quell’idea di comunità che, unita dalla musica, diventa quasi famiglia.

Cosa ti manca di più in questo momento?
La libertà di poter fare quello che voglio.

La tua immagine oggi rievoca l’estetica di artiste iconiche del passato. A chi ti sei ispirata in particolare?
Amo il look post punk, la follia, l’energia e la libertà di Cosey Fanni Tutti, ad esempio, pioniera della sperimentazione artistica e musicale insieme ai Throbbing Gristle e a gruppi come i Cabaret Voltaire.

La tua ultima performance live si è svolta su mixcloud.com e può considerarsi un vero e proprio atto corale, vista la presenza di musicisti, ballerini, performer. Come l’hai vissuta?
È scaturita dalla necessità per la band di tornare a performare insieme. La mia band rappresenta un’estensione della mia famiglia, mi è mancata moltissimo in questi mesi ed è stato folle non poter lavorare insieme. Per quanto riguarda il concept ho voluto che il live avesse luogo in un magazzino, con molto spazio a disposizione per potermi muovere, ballare, camminare. È stato meraviglioso ritrovare tutto quello che rende possibile un live: le luci, gli strumenti, i tecnici. Eravamo idealmente uniti da un rinato senso d’appartenenza perché tutto era nuovamente vero, reale, vivo.

In Italia dovresti tornare nellʼottobre 2021. Come sarà tornare on stage?
Ci sarà inevitabilmente del nervosismo, dopo tutto questo tempo. Le performance online sono fantastiche, perché mi consentono di rimanere in contatto con i miei fan e di mostrarmi anche senza trucco, quando mi va. Ma non potranno mai sostituire l’emozione del palcoscenico, per me e per il pubblico. Non vedo l’ora di tornare a raccontarmi live.

Testo Marco Torcasio
Foto Fraser Taylor
Styling Róisín Murphy
Make up artist Pamela Cochrane
 Hair stylist Linus Johansson

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