Fay: una famiglia moderna
Perbene è una parola fuori moda. Evoca brave ragazze in cerca di marito e uomini con cappello e valigetta che vanno al lavoro dopo aver dato un bacio alla moglie sulla porta di casa. Eppure, pronunciata nell’italiano, quasi perfetto, di Arthur Arbesser, designer di Fay, questa espressione d’antan assume tutt’altro significato. È così che il direttore artistico di Fay definisce l’educazione ricevuta dai suoi genitori: «un certo modo di essere educato, grato, con i piedi per terra»; e così immagina la donna che indossa le sue creazioni: «Una donna perbene che vuole essere vestita bene». Il concetto è la cifra della creatività di Arbesser, e il trait-d’union che lega la sua storia personale al marchio fondato negli anni Sessanta da Mr Fay ispirandosi alle uniformi da lavoro americane, e diventato negli anni Ottanta – dopo l’acquisto da parte del gruppo Tod’s di Diego Della Valle - il simbolo di una borghesia beneducata e benestante. Nelle collezioni firmate da Arthur Arbesser ci sono richiami alle architetture di Ettore Sottsass e alle sculture di Fausto Melotti, all’opera lirica di Verdi e alle canzoni di Franco Battiato; alla Boston degli anni Ottanta e alla Milano degli anni Duemila. «Il mio lavoro è un’espressione molto personale di tutto ciò che mi circonda. Sono le persone con cui mangio, rido e condivido la vita. Sono anche i miei mentori, cui chiedo consiglio e che mi ispirano nel lavoro». Sono anche quelli che, nonostante fosse il 31 di luglio e a Milano ci fossero 30 gradi all’ombra, sono corsi a farsi fotografare al suo fianco, indossando capi Fay della collezione autunno-inverno. C’è Marco Sammicheli, design curator di Abitare, «un amico che mi ha insegnato molto sull’architettura, il design e la storia di Milano». la stilista Gentucca Bini, che Arthur definisce “milanesissima”, quasi una sorella, e Matilde Cassani, che oltre a essere un architetto e un’artista di talento, è la donna che lo stilista ha in mente quando disegna i suoi abiti. Considerato uno dei designer più promettenti nel panorama della moda, Arbesser – classe 1983 – si è laureato in fashion design alla Central Saint Martins, ma deve molto del proprio bagaglio culturale alla famiglia e all’infanzia viennese: «Fin da bambino andavo a teatro e all’opera. A casa ascoltavamo solo Schubert, Wagner, Verdi, e trascorrevamo le vacanze visitando chiese, musei e parchi archeologici. Mai un giorno di mare», ricorda ridendo. «Mia madre in macchina ci leggeva la storia di Giovanna la Pazza e Filippo il Bello: io cercavo di ribellarmi ma è grazie a loro se oggi sono così appassionato di storia». Sono gli anni in cui inizia a interessarsi di moda: «A scuola, disegnavo figurini su tutti i miei libri. Ho sempre avuto una grande curiosità per i vestiti e il modo in cui venivano indossati. Quando ho iniziato a frequentare l’Opera, ho capito la forza dei costumi e come un abito può cambiare una persona». Vienna, però, gli va stretta. A 19 anni si trasferisce a Londra. Dopo la laurea, Milano è una scelta quasi naturale: «Quando studiavo nella biblioteca della Saint Martins continuava a tornarmi tra le mani un libro su Sottsass e il gruppo Memphis. La città mi chiamava». A Milano disegna per importanti Maison e nel 2013 fonda la linea che porta il suo nome. Da quando ha assunto la direzione creativa di Fay, nel 2017, la sfida per lui è stata ripensare i best seller del brand. «Camminando per strada, vedo moltissime persone che indossano Fay: modificare quegli abiti significa comprendere chi li ha scelti. È un’operazione di antropologia sociale». Partendo dagli archivi, Arbesser ha reinventato il giubbotto a quattro ganci ispirato alle uniformi dei pompieri del Maine e il cappotto Virginia, grazie a un uso innovativo di colori, forme e materiali. «Per l’autunno-inverno abbiamo lavorato molto sul concetto di layering: ogni capo è formato da diversi strati – come i piccoli gilet sovrapposti ai cappotti – che si possono indossare in modi e momenti diversi», spiega. La ricerca di materiali all’avanguardia, come tessuti tecnici e cere spalmabili, rendono i capi duraturi e «sempre più belli con il passare del tempo», seguendo la tradizione di un marchio che ha fatto della qualità il suo imperativo categorico. I gialli e i verdi, il blu elettrico e il bordeaux, la pelle color block e le stampe ispirate al mondo dell’arte contribuiscono a dare alla collezione un guizzo fresco, contemporaneo. Per Arthur è stato sufficiente «cambiare piccoli dettagli per rendere nuovi dei modelli storici: questo dimostra il valore dell’idea originale».
In cover, in prima fila da sinistra. Marco Sammicheli con cappotto monopetto in lana check con tipici ganci a chiusura. Matilde Cassani con trench doppiopetto in pelle. Arthur Arbesser con giaccone in cotone cerato con tono e collo staccabile in montone. Gentucca Bini con gilet oversize in panno di cachemire con ganci. Olympia Sammicheli con cappotto in lana. In secondo piano i modelli dello shooting. Tutti i capi del servizio sono Fay.
Foto Cartacarbone
Testo Gaia Passi
Styling Giulio Martinelli
Hair stylist: Erisson Musella @ Closeupmilano.
Make up artist: Luca Cianciolo @ Closeupmilano using Mac Cosmetics. Assistente stylist: Beatrice Pretto.
Tutti i capi del servizio sono Fay.