Fashion

E la donna creò Dior

È la prima direttrice artistica della Maison francese. In un’intervista in occasione della mostra per i 70 anni dalla fondazione, racconta cosa significhi fare moda oggi e di un nuovo femminismo, che tiene conto dei sogni delle donne. Compresi i suoi.
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È vestita di nero. Elegante, quasi felina. Lo sguardo profondo è valorizzato da un lungo tratto di kajal. A ciascun dito porta anelli barocchi, al collo parecchie collane e una catenina dalla quale pende una S dorata, la S di Superman. Un pensierino della figlia Rachele per la sua “Super mamma”. Seduta su un divano negli uffici di Dior in rue de Marignan, Maria Grazia Chiuri ci accoglie sorridente. Nata a Roma nel 1964, figlia di una sarta, ha deciso presto che da grande avrebbe fatto carriera nello stesso campo. Da ragazza setacciava i mercatini di abiti vintage e studiava all’Istituto Europeo di Design di Roma. Ha lavorato da Fendi e poi da Valentino. Insieme all’amico Pierpaolo Piccioli ha fatto dell’azienda romana una delle griffe più ambite del pianeta. Ma nel 2016, Maria Grazia ha posto fine a diciassette anni di collaborazione per diventare la prima donna nella storia di Dior a occupare la posizione di direttrice artistica, proprio quando la Maison festeggia i suoi settant’anni con un’incredibile mostra al Musée des Arts décoratifs di Parigi. Oggi ha un ruolo da solista dopo anni in duo. Rimpiange quel ping pong intellettuale e creativo? «Non ne ho motivo, anche da Dior si lavora in squadra. La differenza è che oggi l’ultima parola spetta a me e il mio punto di vista è più femminile». Sostiene di essere una donna prima che una stilista, cosa significa? «Lo dico perché la mia vita personale e i miei figli (Nicolò, 24 anni, e Rachele, 21) sono molto importanti. Amo il mio mestiere, ma cerco un equilibro tra il lavoro e la vita privata».

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Quali sono le sue priorità? «I miei figli, ovvio. Ma sento anche il bisogno di essere me stessa, di seguire fino in fondo la mia passione». Come si fa? Qual è il trucco? «Semplice, basta smettere di colpevolizzarsi e accettare il fatto di non essere perfette. Non importa se si commette un errore. Bisogna trarre energia anche dagli sbagli». Quali donne le piacciono? «Mi piacciono tutte. Amo la loro compagnia. Ho molte amiche. Mi piace passare del tempo con mia figlia, mia madre, mia nonna. Non credo di avere un’icona femminile di riferimento. Ammiro le donne che in passato hanno lottato per fare ciò che amavano davvero. Le sento vicine. In questo momento sto leggendo la biografia – scritta da Giovanna Zapperi – di Carla Lonzi, una critica d’arte femminista molto importante in Italia negli anni sessanta e settanta. Adoro anche Niki de Saint Phalle, i suoi libri e i suoi film. È riuscita a trasformare un’esperienza terribile in qualcosa di positivo grazie alla creatività». Trova che la sua visione della femminilità sia femminista? «Penso che quando si parla di donne tra donne sia impossibile lasciare il femminismo fuori dalla discussione. Femminismo significa pari opportunità. Significa parlare del corpo in maniera diversa. Anche la moda parla del corpo. Come tutte le donne del mondo voglio essere l’unica ad avere controllo sul mio corpo. Non ci trovo niente di strano». La moda ha risvolti positivi in questo senso? «Assolutamente. Quando sono arrivata qui, tutti mi dicevano: “Dior è un marchio femminile”. Mi sono detta: “Benissimo”. Ma sono una donna ed è inevitabile che mi chieda che cosa significhi oggi parlare delle donne, del femminismo. Viviamo un momento nuovo e importante. La generazione dei Millennials è completamente differente da quelle passate. Dobbiamo fornire risposte nuove, cambiare le cose. Come? Quali? «Per iniziare non dobbiamo imporre, ma proporre, aprire un dialogo. Le donne di oggi sono diverse, più libere, più informate, più coscienti di se stesse. Vogliono essere uniche. Nel mio lavoro devo tener conto di tutti questi cambiamenti. Lo trovo esaltante». Pensa che per rimanere in contatto con il mondo attuale sia indispensabile capire i giovani? «È vitale farlo. I miei figli sono il mio punto di riferimento. Parlare con loro mi permette di avere il polso della situazione. I giovani rappresentano il futuro. E il mio compito è quello di traghettare il marchio nel futuro. Questa nuova generazione è più informata, crede in valori diversi dai nostri». Cosa pensano del lusso? «Hanno una visione diversa. La nostra generazione era affascinata da una moda spesso inaccessibile. Ma con gli anni il settore si è democratizzato. Su internet si può acquistare tutto ciò che si desidera.

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È imperativo riflettere su ciò che significa lusso oggi. Sono il desiderio e i valori che ruotano intorno a certi prodotti a fare il lusso. Senza desiderio non esiste. Si acquista un abito griffato perché si apprezza una lavorazione, una qualità». È ciò che offre Dior? «Dior è una delle massime espressioni della cultura sartoriale. Il tocco umano è una questione su cui non si transige. Le nostre clienti vogliono trovare qualcosa di unico che cada loro a pennello». Cosa ha scoperto, o riscoperto, nella grande retrospettiva su Dior? «Gli archivi sono straordinari, ogni volta scopro qualcosa di nuovo: istinto e capacità di stare al passo con i tempi, completa adesione a ogni specifico momento. In realtà ciò che desidero è visitare la mostra da sola, senza distrazioni. Ci sono già riuscita una volta, ma conto di rifarlo». Qual è la sua immagine di Dior favorita? E a quale stilista si sente più vicina? «Dal punto di vista creativo i miei predecessori mi affascinano tutti da Yves Saint Laurent a Marc Bohan, da Gianfranco Ferré a John Galliano a Raf Simons. Ciascuno di loro, secondo me, si è trovato al posto giusto nel momento giusto. Erano talentuosi e visionari.

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«Le donne di oggi sono diverse, più libere, più coscienti di se stesse.Vogliono essere uniche.Nel mio lavoro devo tener conto di tutti questi cambiamenti. Lo trovo esaltante.»
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Da donna la penso diversamente, non posso non domandarmi: “Che vestito indosserei o avrei indossato?” Ovviamente prediligo gli abiti creati tra gli anni sessanta e settanta, tutto il periodo di Marc Bohan. Ed è divertente perché non l’avrei mai detto. Sono molto attratta dal lavoro di Yves Saint Laurent, in particolare dal Saint Laurent post Dior. Gli anni sessanta e settanta – quelli della mia giovinezza – sono stati fondamentali: le donne si emancipavano, le gonne si accorciavano. Anche oggi attraversiamo un momento cruciale, un’epoca di completa rifondazione. E noi gente della moda abbiamo una grande responsabilità. Rispetto al corpo. Me ne rendo conto perché vedo i miei figli e i figli dei miei amici confrontarsi con certe problematiche, come la chirurgia plastica». Il titolo del volume pubblicato in occasione della mostra è “Christian Dior couturier du rêve,” per lei sognare è importante? «È essenziale. Io non faccio che sognare. Non potrei iniziare a lavorare a una collezione se non sognassi. La moda non riguarda solo l’abbigliamento, ha ovviamente a che fare anche con il sogno. Spesso paragono la moda al cinema. In entrambi i casi bisogna raccontare una storia e per farlo è necessario trovare l’ambientazione giusta, gli attori, i costumi. Abbiamo organizzato l’ultima sfilata haute couture di Dior nei pressi del mio appartamento. Ogni giorno arrivavo sul posto in auto e la persona che lavorava con me alla scenografia mi diceva: “La guardi come se fosse un tuo sogno che diventa realtà”. Beh, aveva ragione». Ma quando sogna? «Cerco di sognare tutti i giorni, per tutta la giornata, ma spesso mi disturbano (ride). Provo a prendere le distanze dalle persone che mi distraggono, a volte ci riesco, a volte non sono abbastanza abile. Tutte le donne vorrebbero sognare il più a lungo possibile, no?»

«Il tocco umano è una questione su cui non si transige. Le nostre clienti vogliono ricevere un servizio su misura, trovare qualcosa che sia unico che cada loro a pennello»
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