Le leggende della gioielleria
Place Vendôme, culla della haute joaillerie francese, era in grande fermento: era il novembre 1932 e Gabrielle Coco Chanel aveva appena presentato una collezione di gioielli tempestati di diamanti, svelata durante un evento parte delle iniziativa benefiche presiedute dalla princesse de Poix. Dopo lʼappuntamento parigino, una exhibition a Londra sponsorizzata dalla marchesa di Londonderry e unʼaltra a Roma, con il patrocinio della principessa Colonna. Intanto le storiche maison di Place Vendôme guardavano, sgomente e diffidenti, questa debuttante irriverente. Eppure, Chanel lo affermava in tutte le interviste: non voleva competere con le storiche maison di haute joaillerie, la collezione era nata a seguito di una richiesta del gruppo De Beers, desideroso di ricreare hype intorno al mondo dei diamanti, la cui brillantezza era stata danneggiata dalla guerra e dalla crisi del 1929. Ma la battaglia era solo allʼinzio: i gioiellieri storici francesi in unʼassemblea alla Chambre syndicale chiesero che i gioielli fossero distrutti. Chanel si oppose e alcuni vennero salvati. Lungi dallʼessere aneddotico, questo caso fa luce sulle abitudini e sui costumi di una professione che ha le sue radici in un passato importante. La gioielleria, a differenza della moda, è stata per secoli governata da corporazioni e confraternite che, per secoli, hanno considerato lʼuniverso dei preziosi un Olimpo dallʼaccesso controllato. Queste venerabili corporazioni (una delle più antiche è quella degli artigiani orafi fondata in Francia sotto Saint Louis, nel 1200, nda) non erano aperte alle donne. Le donne potevano diventare venditrici stagionali e cucitrici, drappeggiatrici o merciaie e lavandaie. Ma non potevano diventare gioielliere, artigiane, apprendiste o maestre di gioielleria: questi lavori erano destinati solo al genere maschile. Ma il mondo stava cambiando e nellʼarco di pochi anni, nellʼuniverso della haute joiallerie si sarebbero affacciate queste sei donne leggendarie. Capaci di scrivere un capitolo importante di un universo destinato a una metamorfosi totale.
Gabrielle Coco Chanel
Il testo che accompagnava una delle sue prime collezioni di gioielli era un manifesto intenso del suo universo estetico, costruito intorno a un mondo di elegante provocazione e fascinosa irriverenza. «La ragione che mi ha portato, prima di tutto, a immaginare gioielli falsi è che li ho trovati privi di arroganza in un periodo di lusso troppo facile. In un periodo di crisi finanziaria, come quello attuale, rinasce un desiderio istintivo di autenticità, che regala il suo giusto valore a questa divertente pacotille». Era il 1932 e i commercianti di diamanti di Londra avevano avuto una intuzione geniale quando avevano chiesto a una stilista come Gabrielle Coco Chanel di raccontare le loro pietre preziose: nel novembre di quellʼanno, la Parigi che conta si dà appuntamento da mademoiselle Chanel, al numero 29 di Faubourg Saint Honoré, per scoprire la sua: «exposition di bijoux con diamanti» composta da 47 pezzi unici. I giornali dellʼepoca elogiano lʼesperimento: «Chanel tratta le pietre preziose con lo stesso gusto, la stessa facilità con cui si drappeggia un tessuto: ha formato stelle, mezzalune, nodi, frange di geniale fattura, creando qualcosa di molto diverso rispetto ai gioielli in voga in quel tempo». A salutare un momento che ha segnato profondamente il mondo della joaillerie, c'è la crème della nobiltà francese ma anche artisti come Pablo Picasso o Jean Cocteau. Chiamati ad ammirare le foto scattate dal giovane Robert Bresson e i gioielli posizionati su manichini di cera ultra realistici. Parola dʼordine, pragmatismo, considerato il vero must della modernità. «Se ho scelto il diamante è perché racchiude il valore più grande nel volume più piccolo». Missione compiuta per i commercianti di diamanti che, con questa operazione nel segno della moda, erano riusciti a riportare in auge lo splendore di una pietra offuscata dalla crisi. E missione compiuta per il mondo parigino della haute joaillerie, pronto a una nuova vita, grazie alle intuizioni geniali di una donna irriverente e avanguardista.
Jeanne Toussaint
In gran parte dominato da corporazioni secolari che vegliano ferocemente sulle prerogative dei suoi membri, il mondo della gioielleria è stato quasi, ed esclusivamente, un mondo al maschile. Almeno fino alla fine del XIX secolo. Il movimento Arts & Crafts in Inghilterra ha poi permesso ad alcune donne di esprimersi; basti pensare a talenti incredibili come Georgina Gaskin o Edith Dawson. Questa rivoluzione culturale, probabilmente, influenzò Louis Cartier, che nel 1933 prese una decisione radicale per la maison che portava il suo nome e che era stata fondata da suo nonno nel 1847: affidare la gestione della creazione della haute joaillerie a una donna. Una rivoluzione che portava il nome di Jeanne Toussaint, una figura che Louis Cartier conosceva molto bene e da molto tempo. Nata a Charleroi, da genitori che producevano merletti, era fuggita da casa in tenera età per unirsi a sua sorella a Parigi. Il suo fascino e la sua eleganza innata le avevano permesso di sedurre lʼaristocrazia dellʼepoca e di incontrare Louis Cartier durante una serata da Maximʼs prima che scoppiasse la guerra. Il resto è una romantica storia amicale che prevede unʼidea di matrimonio, fortemente combattuta dalla famiglia di lui, tanto che i due rimasero ottimi amici fino alla morte di Louis nel 1942, a New York. Nei suoi anni al timone creatrivo di Cartier, Jeanne Toussaint fece meraviglie. Il suo senso di proporzione, colore, design, volume ha animato creazioni dalla femminilità indipendente. Nel suo percorso creativo ha reso i diamanti flessibili e fluidi, ha immaginato nuove combinazioni cromatiche. Louis Cartier le aveva dato un soprannome tenero e stuzzicante: “la panteraˮ. Aveva ragione: Jeanne Toussaint era la vera Pantera di Cartier. Capace di regalare un brivido e un impulso creativo senza precedenti alla maison. Perché come diceva Pierre Claudel, figlio di Paul: «Jeanne Toussaint ha guidato il mondo della gioielleria verso la modernità senza mai sacrificarne lʼeleganza e il buon gusto».
Elsa Peretti
Louis Comfort Tiffany non ha certo aspettato la nascita delle suffragette e della rivoluzione per dare alle donne posizioni chiave nella Maison Tiffany. Quando prese la direzione artistica del marchio nel 1902, succedendo a suo padre, nominò Julia Munson a capo del dipartimento di gioielleria. Fu sostituita da unʼaltra donna, Patricia Gay, nel 1914. Le loro rispettive creazioni rivelano un notevole uso di filigrana e sono caratterizzate dalla vivacità cromatica di pietre e gemme che decorano collier con tonalità fresche e inaspettate. Anche se la storia ha un poʼ dimenticato i loro nomi, queste donne hanno contribuito in maniera sostanziale alla creazione della fama globale del gioielliere americano. Nulla a che fare, tuttavia, con il decisivo impatto che Elsa Peretti ha avuto sul mondo della joaillerie contemporanea. Era già unʼartista riconosciuta quando iniziò a creare in esclusiva per Tiffany nel 1974 (il suo primo gioiello nacque in Italia, dove era nata, negli anni ʼ60, nda). A Barcellona, dove si era stabilita, immaginava il suo primo ciondolo-vaso, primo di una serie il cui successo non è mai stato intaccato. Al di là del suo stile unico, costruito tra linee semplici e scultoree, curve organiche forgiate in oro e argento, e forme mutuate dalla vita di tutti i giorni (fagioli, cuori, mele, lacrime, artigli di crostacei e ossa), con le sue creazioni profondamente sensuali Elsa Peretti ha rafforzato quella che oggi chiameremmo lʼimmagine del marchio; reintroducendo lʼargento nella collezione di gioielli Tiffany e anche immaginando la linea personalizzabile “Diamonds by the Yardˮ, composta da semplici diamanti tondi e ovali attaccati a una catena in oro regolabile. Grazie alle sue intuizioni design, al suo animo filantropico, al suo innato fiuto per il business e alla sua creatività rivoluzionaria ha semplicemente proclamato al mondo che il lusso, anche nel gioiello, è davvero per tutti.
Suzanne Belperron
A New York, il mercante dʼarte e di antiquariato Lee Siegelson ha trasformato la galleria fondata dal nonno in un tempio di gioielli vintage. E un nome su tutti è diventato un vero e proprio cult: Suzanne Belperron. «La richiesta è tale che presentiamo solo alcuni pezzi ai nostri clienti privati e più speciali», ha spiegato illustrando le creazioni spettacolari della designer. Bisogna dire che i gioielli immaginati da questa creativa durante mezzo secolo di attività, a partire dagli anni ʼ20, sembrano confermare a ogni nuova generazione di acquirenti lʼunicità della loro creatività pronta a sfidare, e andare oltre, ogni tendenza. Karl Lagerfeld ne è sempre stato ossessionato, fin dagli anni ʼ60, tanto da aver scelto uno dei suoi gioielli in calcedonio per dare il via alla creazione di una collezione per Chanel. Il talento di Suzanne Belperron, nata nel 1900, si è rivelato molto presto: le sue prime creazioni respingono la geometria architettonica dellʼArt Déco, manifestano il desiderio di allontanarsi dai dettami delle mode del momento per scrivere il nuovo. Jeanne Boivin, che come Suzanne seguiva soltanto il suo istinto, la accolse nella maison fondata da suo marito René. E la incoraggiò, alla tenera età di 19 anni, a dare sfogo alla sua visione di stile. Durante i suoi anni con Bernard Herz, un commerciante di perle e pietre preziose, acquisì una reputazione internazionale moltiplicando le sue capacità tecniche e stilistiche. Paul Flato, creatore dei gioielli delle star di Hollywood, le fece una proposta decisamente attraente che rifiutò per poter restare nella sua Parigi. Una vera celebrity durante la sua vita, Belperron divenne rapidamente un mito dopo la sua morte nel 1983. Al punto che il newyorkese Nico Landrigan, figlio di Ward Landrigan, ex direttore del dipartimento di gioielleria di Sothebyʼs e attuale proprietario di Verdura, decise nel 2004 di riaccendere lʼattenzione alle sue creazioni attraverso un viaggio culturale alla scoperta del suo mondo unico di preziosi speciali.
Victoire de Castellane
Contrariamente a quanto si possa immaginare, è stata Victoire de Castellane a proporre a Bernard Arnault, numero uno del gruppo LVMH, di creare la haute joiallerie di Dior, e non viceversa. «Un giorno ho detto a monsieur Arnault che volevo creare un tipo di gioielleria che ancora non esisteva... Et voilà, da lì è iniziata questa avventura». Era il 1999, il mondo della joaillerie era molto diverso da quello che è oggi. E prendendo vigorosamente la guida della divisione gioielleria e alta gioielleria della maison di avenue Montaigne, Victoire de Castellane la libera dal suo passato bourgeois, regalandole una nuova vita. Venti anni dopo questo arrivo, la designer ha mantenuto le promesse iniziali. Il suo stile è un manifesto ideologico, piuttosto che un progetto estetico, su cui domina una sola regola: rifuggere il cattivo gusto per abbracciare un mondo popolato di pirati e di piante carnivore, di vampiri e di principesse. Negli anni i suoi fiori femminili sono diventati velenosi, seguendo lʼevoluzione del contesto sociale. Le sue tonalità preferite sono sfuggite allo spettro cromatico comune per modulare nuove combinazioni inattese e stupefacenti, a raccontare un moderno desiderio di sfarzo. I suoi nodi, i suoi nastri, i suoi petali e le sue coccinelle hanno sfidato il loro essere semplicemente “carini” per diventare delle vere opere di artigianato prezioso, che ci invitano a non prendersi troppo sul serio. Per celebrare i suoi primi 20 anni da Dior, Victoire de Castellane ha immaginato una collezione antologica battezzata “Gem Diorˮ che sintetizza la bellezza materica e naturale delle pietre preziose. Pronte ad aggrovigliarsi come pezzi di zucchero candito su architetture di metallo prezioso. E per fuggire ancora una volta da sentieri battuti, la designer ha scelto YouTube, e la complicità del regista Loïc Prigent, per costuire una prima retrospettiva dedicata al suo lavoro: un cortometraggio destinato a raccontare una preziosa storia dʼamore lunga venti anni.
Renée Puissant
Dopo la prima guerra mondiale, una ventata di pragmatismo ha rinfrescato le creazioni destinate al mondo femminile, sia nellʼuniverso della couture che in quello della gioielleria. In Van Cleef & Arpels, una donna, Rénée Puissant, ha capito questa nuova equazione. Conosce molto bene il cuore della maison poiché è nata proprio dalla storia dʼamore intrecciata tra suo padre, Alfred Van Cleef, e sua madre Esther Arpels. Donna di notevole eleganza, la figlia di questa coppia “famosa” è anche una personalità dotata di grande senso pratico. Le sue prime iniziative nel mondo della gioielleria furono, in effetti, ciò che oggi chiameremmo marketing. Nel 1921, per le festività natalizie, immaginava di vendere gioielli: “a prezzi specialiˮ e più economici rispetto alle solite collezioni. Inventando, semplicemente, qualcosa di molto vicino alla gioielleria ready-to-wear. Nel 1926, dopo la morte del marito, assunse il ruolo di direttore artistico della casa fondata dai suoi genitori. Ed è sotto la sua direzione creativa che i gioielli Van Cleef & Arpels vengono avvolti da una particolare sensualità. Lei e il designer René Sim Lacaze formano una coppia fruttuosa, e creano la “Minaudièreˮ, che immediatamente decodifica la borsa da sera unendo eleganza e praticità. Nel suo creare unisce elementi della vita quotidiana e fascino parigino. Basti pensare al collier “Zipˮ che incarna con brio lʼarte della trasformazione di Van Cleef & Arpels e la cui idea è stata ispirata dalla Duchessa di Windsor intorno al 1938. Lʼispirazione? Gli abiti di Elsa Schiaparelli, che aveva trasformato le cerniere delle giacche da aviatore in articoli da toilette. Il design di questa collana è stato lungo e difficile; basti pensare che fino ai primi anni ʼ50 il collier “Zipˮ non uscì dagli atelier di Van Cleef & Arpels. Renée Puissant, nel frattempo, nel 1942 era stata spazzata via dallʼoscurità della guerra. Lasciando una eredità creativa di indipendenza e libertà, nel segno di una gioielleria avanguardista e unica.