Interviste

#WONDERWOMEN: Mary Katrantzou

In conversazione con Mary Katrantzou #WONDERWOMAN de L'Officiel Italia
person human art costume

L’anno scorso la sfilata della sua prima collezione couture al tempio di Poseidone a Capo Sunio è stata descritta come un momento indimenticabile anche dai fashionisti più blasé. Nata ad Atene, diplomata alla Central Saint Martins e basata a Londra, la trentasettenne Mary Katrantzou ha lanciato il suo marchio 11 anni fa, conquistando un pubblico di collezioniste dei suoi modelli particolarissimi.

Era dai tempi in cui Elsa Schiaparelli e Coco Chanel si dividevano la scena della moda parigina che le designer donne non ricoprivano una posizione di rilevanza paragonabile a quella odierna. Credi si possa parlare di uno specifico sguardo “femminile” sulla moda? E credi che esista tra le designer donna una forma di “sisterhood”? O almeno di solidarietà?
Credo stiamo assistendo in tutto il mondo a un cambiamento di paradigma che ha permesso alle donne di trovare la propria voce, e questo sta accadendo anche nella moda. Vedere designer donna avere successo sia alla testa di grandi maisons che di propri marchi incoraggerà sempre più giovani donne a crearsi un proprio percorso nell’industria. E credo che le donne abbiano costruito un sistema di supporto reciproco di cui sono felice di  fare parte.

Come è nata la tua passione per la moda?
Da ragazza non ho mai pensato di fare la stilista, dipingevo ed ero interessata all’interior design. Ho studiato architettura in America, alla Rhode Island School of Design, ma è stato solo più tardi, quando mi sono trasferita a Londra, che mi sono imbattuta nella moda. Quello che mi interessa sul serio è avere la libertà di lavorare trasversalmente su varie discipline creative per nutrire il brand che ho costruito.

Il tuo look personale ha influito sul tuo modo di concepire le collezioni?
La domanda che mi fanno più spesso è come mai vesto sempre di nero. Prima di lanciare il mio brand 11 anni fa indossavo abiti colorati. Il cambiamento è stato lento e non si è trattato di una scelta razionale, ma piuttosto operata nel subconscio: a un certo punto ho smesso di pensarci, e il nero è diventato un’uniforme. Passo le mie giornate in studio a operare delle scelte tra colori e stampe, così il nero è diventato un modo per ripulire la mia palette. Cerco di semplificare il più possibile  tutto quello che non c’entra  con il mio lavoro in modo da non sprecare tempo nel prendere tante decisioni tutto sommato irrilevanti nel corso di una giornata. Tutti mi considerano una massimalista, ma sono anche una purista. Proprio perché mi piace trovare un’armonia tra elementi apparentemente dissonanti è fondamentale creare uno spazio vuoto  attorno a me per riuscire a focalizzarmi su quello che voglio.

Come ti defineresti? E quali sono le caratteristiche personali che ti hanno fatto arrivare dove sei?
Sono ottimista, determinata e leale. Credo che sia fondamentale credere in se stesse, ascoltare il proprio istinto, riuscire a focalizzarsi completamente e non avere paura nel prendere decisioni audaci.

I tuoi abiti oggi sono un trionfo di fiori, piume, paillettes, cristalli, ricami, ma hai iniziato con una stampa trompe l’oeil con una bottiglia di profumo gigante. Hai mai pensato di lanciare una tua fragranza?
Non posso entrare nei dettagli ma è in corso una collaborazione davvero speciale e trovo meraviglioso instillare il mio universo creativo in un profumo.

I tuoi abiti sono un mix indissolubile di tecnologia e sartorialità.
All’inizio utilizzavo le innovazioni tecnologiche per creare con precisione ingegneristica stampe attorno alla figura femminile, focalizzandomi su innovazioni tessili e allargando i confini di quello che puoi creare attraverso la stampa. Ora sono più interessata alla narrativa, al motivo per cui una donna viene attratta dall’unicità della mia visione.  Si tratta di filtrare la bellezza attraverso il design e creare un mondo che possa diventare un mezzo di comunicazione attraverso un linguaggio visuale.

I tuoi abiti sono stati esposti al Met nella mostra sul “Camp”, e prima ancora il Dallas Contemporary Museum ti ha dedicato una mostra monografica.
Mi sento al tempo stesso onorata ed estremamente umile al pensiero che mi siano state dedicate due esibizioni monografiche e di aver fatto parte di mostre del Met come del Victoria & Albert Museum o dello Smithsonian Cooper Hewitt. Credo le mostre costituiscano straordinarie occasioni per riflettere. La moda ha bisogno di momenti di pausa visto il suo ritmo frenetico. Una mostra è un’opportunità per ricontestualizzare il complesso del proprio lavoro. Ogni volta mi sorprendo, vedendo diverse collezioni insieme, dei temi ricorrenti che costituiscono un vero e proprio fil rouge. Ogni collezione ha una storia da raccontare e questo crea una conversazione coesiva che si sviluppa ed evolve di stagione in stagione. Sono assolutamente convinta che il posto della moda sia nei musei, perché è una forma di espressione artistica indicativa dei nostri tempi e della nostra cultura.

Il momento culminante del tuo percorso fino ad oggi è stata la sfilata al tempio di Poseidone a Capo Sunio dell’anno scorso...
Con “Wisdom begins in wonder”, la mia prima collezione couture, si è aperto un nuovo capitolo per il brand. Credo che la couture sia il modo più responsabile di lavorare per il futuro. Il lusso è una questione di esclusività, e creare abiti preziosi che verranno trasmessi alle future generazioni è un modo per evitare gli sprechi.

Pensi che il sistema della moda inglese sia stato particolarmente supportivo nei tuoi confronti? Quali sono state le figure che hanno giocato un ruolo fondamentale per lo sviluppo del tuo brand?
Credo che Londra abbracci la diversità che portano i designer provenienti da tutto il mondo per viverci. Non credo che questo cambierà perché la funzione di tutte le forme d’arte è riflettere la società che le contiene. Naturalmente potrebbe succedere che la società cambi, ma mi auguro che Londra continui a rimanere un punto d’incontro per persone che seguono percorsi molti diversi. Ho lavorato strenuamente per costruire il mio marchio, ma non ce l’avrei mai fatta senza l’aiuto di figure come la scomparsa Louise Wilson (leggendaria insegnante della Central Saint Martins) che mi ha formata, Caroline Rush del BFC, e Sarah Mower (giornalista e Ambassador for Emerging Talent del BFC) che mi ha “scoperta” al mio graduation show della Central Saint Martins.

Quali sono i tuoi designers preferiti?
Elsa Schiaparelli, Christian Lacroix, Alaïa, Yves Saint Laurent, Jean Paul Gaultier, Pierre Cardin, Coco Chanel, Vivienne Westwood, Rei Kawakubo... Tutti visionari che hanno creato così tanta bellezza da continuare a ispirare le generazioni a venire. 

Il vestito cui sei più legata tra quelli che hai creato?
Gli abiti con cui ho la connessione emotiva più forte sono due, l’abito con la bottiglia di profumo che ha aperto la mia prima sfilata, la F/W 2009, che abbiamo rifatto in una maglia di cristalli Swarovski per il decimo anniversario del brand, e il modello Paint by numbers che ho disegnato due anni fa per Cate Blanchett, presidente della giuria del festival di Cannes. Incontrare di persona un’attrice che ammiro e lavorare con lei e la sua stylist Elizabeth Stewart è stato fantastico. 

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