Interviste

#WONDERWOMEN: Stella McCartney

In conversazione con Stella McCartney #WONDERWOMEN de L'Officiel Italia
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Terminata nel 1995 la Central Saint Martins, Stella McCartney viene nominata nel 1997 a 26 anni direttore creativo di Chloé: se all’inizio molti parlano di un trattamento di favore per la figlia di Paul McCartney, il successo critico e commerciale mette tutti a tacere. Nel 2001 lancia il suo brand, in partnership al 50% con Kering grazie al pushing di Tom Ford. Una società terminata due anni fa, quando McCartney ricompra il marchio al 100%. Figlia di due convinti vegetariani e cresciuta in una fattoria organica, fin dall’inizio esclude pelle e pellicce dalle sue collezioni. Dal 2008 usa solo cotone organico perché la coltivazione tradizionale impiega il 16% dei pesticidi utilizzati a livello mondiale. Nel 2010 elimina il pvc. Nel 2012 introduce un tipo di suola biodegradabile per le scarpe, gli occhiali in bioacetato e l’utilizzo esclusivo di poliesteri riciclati. Nel 2013 smette di usare l’angora, dal 2016 impiega solo una viscosa sostenibile e tracciabile proveniente dalla Svezia perché quella diffusa sul mercato contribuisce drammaticamente alla deforestazione, con l’abbattimento a questo fine di 150 milioni di alberi solo nell’ultimo anno. L’anno scorso ha eliminato il cashmere, per non contribuire alla desertificazione delle steppe sostituendolo con alpaca tracciabile proveniente dal Perù. Una serie coerente di innovazioni che l’ha portata a dichiarare che la S/S 2020 è la collezione più sostenibile che sia mai riuscita a produrre. Un impegno riconosciutole dai suoi 6,3 milioni di followers su Instagram come dallʼedizione americana di “Vogue”, che a dicembre l’ha messa in copertina, la prima mai concessa a un fashion designer. Nel novembre 2019 il “Sunday Times” ha pubblicato una sua (bellissima) open letter che invitava ad andare oltre alla Fashion Industry Charter for Climate Action dell’ONU e al G7 Fashion Pact, e a reimmaginare sistematicamente l’industria della moda, responsabile di più di un terzo delle microplastiche diffuse a livello mondiale e seconda causa dell’inquinamento globale delle acque con la tintura dei tessuti.
Qual è l’origine della tua passione per la moda?
Stella McCartney: Ho un ricordo molto forte di me bambina di quattro o cinque anni, seduta nel guardaroba dei miei genitori, totalmente affascinata dal fatto che fosse condiviso. Era l’epoca del Glam Rock, metà delle cose che ero certa fossero di mia madre venivano regolarmente indossate anche da mio padre. E ho imparato moltissimo dal loro forte senso etico. Erano attivisti impegnati in varie cause internazionali, vegetariani e ambientalisti. Io ho fatto miei la loro etica e il loro impegno. La cosa che mi interessa di più è fare del mio brand un marchio a impatto zero sull’ambiente. Sperando che il mio lavoro costituisca un esempio per tutti.

Le tue fonti di ispirazione?
Da ragazza guardavo i vecchi film di Hollywood, mi piacevano Katharine Hepburn, Billie Davis (cantante inglese, nda) ma la mia icona in assoluto era Doris Day, probabilmente perché non rientrava negli stereotipi delle donne di allora. Il film che mi ha influenzato di più in quello che faccio ancora oggi è stato “Calamity Jane”, dove Doris Day era un maschiaccio e una cowgirl che di colpo si trasforma in una donna superglamorous. L’arte e il design del ’900 sono un’altra fonte di ispirazione: Jean Prouvé, Charlotte Perriand, Gio Ponti, Fontana, Erté, Paolo De Poli, Alexander Calder...

Hai iniziato a collaborare con Adidas nel 2004. Come è nata questa partnership?
All’epoca l’abbigliamento sportivo per le donne era tremendo, al punto da essere paradossalmente quasi cool: i colori erano quelli basici, c’era pochissima varietà nei modelli. Ho pensato che questo offrisse una grande possibilità d’intervento al punto che oggi lo sportswear è diventato una scelta di lifestyle per le donne di tutto il mondo. Da un punto di vista tecnico trovavo eccitante poter mettere a disposizione delle donne una tecnologia cutting edge invisibile all’occhio ma effettivamente in grado di migliorare la performance. Cerchiamo di rendere i nostri outfit sempre più innovativi da tutti i punti di vista, a livello di tecnologia, costruzione del modello e contenuto moda, utilizzando materiali ottenuti in modo etico e sostenibile.

Il tuo mantra, in relazione alla sostenibilità, è: “Tomorrow starts today”, e tu sei e sei sempre stata una pioniera nell’ingegnerizzare nella tua moda valori che ancora oggi molti marchi preferiscono ignorare o che affrontano comunque più in una prospettiva di green washing che per arrivare a un effettivo cambiamento. Dopo la collezione S/S 2020, che hai definito la più sostenibile tra tutte quelle cui hai lavorato, realizzata per il 75% in materiali sostenibili, su che obiettivi specifici ti stai focalizzando?
L’innovazione è alla base di quello che facciamo, quello che consideriamo fashionable e sexy. Abbiamo smesso di usare il PVC, la più tossica delle materie plastiche già 10 anni fa, e sviluppato una fantastica alternativa chiamata PU. Amo moltissimo il cashmere rigenerato che utilizziamo: l’impatto è sette volte inferiore a quello del cashmere vergine, perché è ricavato da quello che viene sprecato nella lavorazione tradizionale. Per la F/W 2020 abbiamo introdotto una nuova ecopelliccia chiamata KOBA fatta di cellulosa e poliestere riciclato che necessita del 30% in meno di energia e produce il 63% in meno di emissioni di carbone. Stiamo anche lavorando con un nuovo partner alla creazione di un denim stretch sostenibile e biodegradabile.

Temi che la crisi economica aggravata dal Covid-19 possa essere un freno per la causa ambientalista? O piuttosto un’opportunità?
Penso che sia affascinante che per la prima volta nella storia siamo tutti connessi dalla stessa cosa, e penso che questa sia la prima volta che possiamo effettivamente misurare il danno che abbiamo fatto. Abbiamo visto le emissioni di carbone scendere del 25% a febbraio in Cina. È bastato un periodo brevissimo di tempo per farci vedere la natura riprendersi i suoi spazi. Mi sono chiesta spesso in tutti questi anni: saremo mai in grado di “guarire” la Terra? Questa è la dimostrazione che possiamo, quindi sono speranzosa. Credo che sarebbe veramente un errore di prospettiva, specialmente per l’industria della moda, non usare questo momento per ripensare e migliorare l’intero sistema.

Stai già lavorando a qualcosa di concreto nel tuo ruolo di personal advisor per la sostenibilità di Bernard Arnault?
Quando LVMH è pronto a parlare seriamente di sostenibilità, credo sia arrivato il momento per il mondo della moda di svegliarsi e capire che non si tratta più di un trend ma del suo futuro. Credo che Arnault sia prontissimo a questo tipo di conversazione e quello che potremmo fare insieme sarebbe davvero in grado di cambiare le regole del gioco. Certo queste cose non si realizzano in tempi brevi e purtroppo non sappiamo se avremo abbastanza tempo per realizzare dei cambiamenti significativi per i nostri figli. Ma è un’opportunità straordinaria.

Il tuo momento più bello legato alla moda?
Ho avuto tanti momenti straordinari, dalla creazione delle divise olimpioniche della squadra britannica nel 2012 a Meghan Markle vestita con un mio abito per il ricevimento nuziale, ma più di tutto sono felice di essere stata sempre coerente, di non essere mai scesa a nessun compromesso quando tutti mi invitavano a farlo come unico modo per arrivare al successo.

Tra dieci anni vorresti...
Continuare a fare quello che faccio, creare abiti non solo belli ma gentili verso il pianeta, e utilizzare sempre nuove tecnologie per farlo al meglio. E mi piacerebbe che tutti gli altri marchi si fossero uniti a me in questa missione; che lavorare in questo modo fosse diventata la norma.

Nella tua lettera aperta al “Sunday Times” sostieni che i vari governi dovrebbero incentivare l’uso di materiali sostenibili
Al momento non ci sono vere linee guida per l’industria della moda e quindi i costi sono molto elevati per chi come me vuole usare soltanto procedure e materiali non dannosi per il pianeta. Ad esempio io posso essere tassata del 30% in più per voler importare un oggetto in ecopelle negli Stati Uniti. In questo modo vengo praticamente punita per cercare di fare qualcosa di buono. Dovrebbe essere il contrario: dovrebbero esserci delle regole che impediscano di utilizzare materiali dannosi per l’ambiente.

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