Interviste

#WONDERWOMEN

Un portfolio tra moda e beauty con le creative più interessanti del momento. Donne dotate di sicuro istinto manageriale e portatrici di valori positivi: sostenibilità, solidarietà, armonia nel lavoro
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Wonderwomen. E non solo per un clin d’oeil a “Wonder Woman 1984”, il sequel (in uscita ad agosto) di “Wonder Woman” con Gal Gadot; un filmetto in quanto a meriti cinematografici ma record d’incassi e primo Marvel diretto da una donna, con protagonista una donna, a sfondare al box office. Wonderwomen le donne che si sono raccontate in questo portfolio lo sono, per il talento e la tenacia con cui si sono imposte nel mondo della moda. Un mondo la cui scena, da Charles Frederick Worth in poi, è stata dominata dagli uomini, nonostante la continua presenza di couturières e stiliste d’eccezione. Ma a parte Rose Bertin, la “ministra della moda” di Maria Antonietta, a parte gli anni ’20/’30, quando il genio di Madeleine Vionnet e Jeanne Lanvin eclissava il resto, e più tardi la rivalità Chanel/Schiaparelli era center stage, gli stilisti uomini sono entrati nella storia come geni creativi mentre alle donne si riconosceva soprattutto un successo commerciale. Naturalmente il talento è talento, non è questione di categorizzazioni contrapposte. Paul Poiret, Christian Dior, Yves Saint Laurent, Yohji Yamamoto, Issey Miyake, Azzedine Alaïa, John Galliano, Alexander McQueen, etc etc hanno fatto la storia della moda. Ma è indubbio che il sistema (fashion, mediatico e socia- le) li ha tendenzialmente favoriti rispetto alle donne. La stessa cosa è successa in profumeria. Se oggi le creatrici di profumi sono probabilmente più numerose della loro controparte maschile, Christine Nagel ricorda bene di non essere stata ammessa all’inizio degli anni ’80 alla scuola di profumeria di Firmenich in quanto donna. E se è vero che molti tra i marchi più reputati oggi sono stati fondati da donne, e che figure outstanding come Germaine Cellier Giacobetti hanno goduto di ampio riconoscimento, per anni, soprattutto sui media, la scena sembrava dominata da nasi uomini; e tutt’oggi i brands ai vertici delle vendite della profumeria, Chanel, Dior, o Guerlain, hanno uomini come direttori artistici. E se nel makeup sono almeno trent’anni che si affermano linee indipendenti fondate da donne, è solo relativa- mente di recente che i grandi marchi hanno cominciato ad affidare loro la direzione creativa, Chanel nel 2015 a Lucia Pica, spettivamente a Violette e Val Garland. Eccezion fatta per Giorgio Armani, la cui linea trucco nasce nel 1999 con Pat McGrath e dal 2010 è supervisionata da Linda Cantello, e per Lancome, che nel 2003 aveva scelto Gucci Westman, e cinque anni fa Lisa Eldridge come direttrici artistiche. Per non parlare dei backstage delle sfilate top, tutti saldamente in mano a uomini, se non fosse stato per Pat McGrath, che negli anni di maggior gloria arrivava a totalizzarne sessanta a stagione. Tornando alla moda, si sono moltiplicate sia le designers fondatrici di brands dal rilevante impatto critico e commerciale, menzione d’onore, oltre alle designer presenti nel portfolio, a Chitose Abe di Sacai e Grace Wales Bonner, sia le donne chiamate alla direzione artistica di marchi dalla legacy importante. L’anno scorso Virginie Viard è stata la scelta “naturale” di Chanel per succedere a Lagerfeld, che la definiva: «il mio braccio destro e il mio braccio sinistro». Nei suoi dieci anni alla testa di Alexander McQueen Sarah Burton ha saputo sviluppare al tempo stesso con autonomia e coerenza l’eredità del genio di cui era stata l’alter ego per 14 anni. Se Clare Waight Keller ha appena chiuso, dopo soli tre anni, la sua storia da Givenchy, l’onda lun- ga di nomine come quella di Maria Grazia Chiuri da Dior è destinata a cambiare le cose. Alla domanda se avesse avuto la sen- sazione di rompere il “soffitto di vetro” venendo chiamata alla testa di un’istituzione come Dior, la stilista romana risponde: «Sicuramente la mia nomina è stata un gesto di rottura rispetto alla storia della maison che, attraverso il disegno maschile dei direttori creativi che mi hanno preceduto, ha negli anni definito una idea precisa di femminilità. Donna, e anche italiana (anche se prima di me c’era stato un altro italiano, Gianfranco Ferré, nda): questo mi ha permesso di comprendere meglio le qualità della cultura italiana della moda in relazione alla cultura francese della moda. E di intrecciare questi saperi». Si deve alla Chiuri anche l’introduzione nelle collezioni e sfilate Dior, momenti mediatici di impatto globale, di frammenti di cultura/conversazione femminista. «Sono stata convocata da Dior in un momento particolare della mia vita in cui stavo – attraverso una serie di letture, in primis Chimamanda Ngozi Adichie, e il confronto con mia figlia Rachele – prendendo consapevolezza della complessità dell’essere donna. Ma anche della bellezza dell’esserlo. Ho pen- sato che essere a capo di una maison come Dior mi dava la possibilità di lavorare per le altre donne, mettendo a fuoco un progetto che conciliava l’idea di femminilità con quella di femminismo. Però il femminismo per me non è un tema da svolgere nelle collezioni. È un modo di guardare e riflettere sul nostro tempo, è una guida nel mio lavoro per le donne, è un modo di far conoscere e dare spazio ad artiste, studiose, attiviste che grazie all’audience di cui gode un brand come Dior possono comunicare e amplificare in modo straordinario il loro progetto e il loro messaggio». Per tante delle designer intervistate in questo portfolio le grandes dames iconoclaste che hanno rivoluzionato la moda degli ultimi ’50 anni, Rei Kawakubo, Miuccia Prada, Vivienne Westwood, sono un modello di riferimento fondamentale. Per altre l’istinto e la passione della moda viene dalla famiglia, vedi dinastie fashion sviluppatesi al femminile come Fendi, Missoni o Biagiotti, dove Lavinia, succeduta alla madre Laura tre anni fa, ricorda che nel DNA del marchio c’è anche il lavoro della nonna Delia. «Mamma ed io abbiamo lavorato fianco a fianco per 21 anni. Siamo state un duo inedito e, mi sia concesso, vincente: abbiamo trovato la sintesi alchemica tra generazioni diverse e creato un progetto inclusivo. Avevamo un’identità individua- le precisa ma sapevamo essere intercambiabili. Aveva un senso del dovere fortissimo: nel backstage della sfilata spesso capitava di provare per 12 ore di fila. Quando davamo segni di cedimento lei, con il suo inconfondibile garbo e la voce pacata, diceva: “siamo qui per migliorarci”. Mutuo da mia madre Laura il motto “disegnare il futuro, ogni giorno” e l’approccio gioioso, rigoroso e coerente nell’inesausta ricerca dell’abito che non c’è”. Mia madre mi ha insegnato l’importanza di avere una visione. Mi ha insegnato che la moda può costruire ponti tra mondi differenti, perché credeva che fosse possibile comunicare e condividere idee anche attraverso la bellezza. La moda è un linguaggio universale, ma il particolare accento Laura Biagiotti è riuscito a farsi riconoscere, identificare, ha valicato i confini locali ma “l’abito bambola” oppure il “bianco Biagiotti” resteranno nell’immaginario moda, oltre a continuare a ispirare le mie collezioni». Carolina Castiglioni, invece, ha lavorato per Marni, il marchio di culto e free spirit fondato dalla madre Consuelo, per 13 anni, prima di lanciare nel 2018 Plan C. Una scelta naturale, anzi “fisiologica” quella della moda, assimilata crescendo a fianco di una donna dallo stile eccentrico e poetico al tempo stesso. «Ho sempre vissuto la moda al “femminile”, sono cresciuta con mia madre, e osservando, interiorizzando, il lavoro di Miuccia Prada e di Phoebe Philo da Céline. L’estetica di base di Plan C è la mia, tutto quello che faccio sono capi che indosserei io stessa, mentre da Marni non condividevo l’interezza della collezione. Sono una persona attiva, giro in motorino, mi piacciono le cose speciali, non banali, ma non uscirei certo la mattina con i tacchi e in gonna lunga. Definirei il mio stile personale “creativo”, guardo all’arte per gli accostamenti di colore e prendo grande spunto dai bambini, a partire dai disegni di mia figlia Margherita», che utilizzo come motivi grafici fin dalla prima collezione. Forse la terza generazione di stiliste Castiglioni si sta già preparando.

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