“Plus ça change, plus c’est la même chose”
Uno, nessuno e centomila. Nel corso della sua lunga carriera, John Armleder, artista eclettico e imprevedibile, è stato definito via via un artista Fluxus, citazionista, minimalista, neo-suprematista, neo-geo e tanto altro ancora. Etichette, queste, tutte finalizzate a esaurire un aspetto del suo fare artistico e tutte, alla fine, rivelatesi inadeguate al compito. Lui stesso sorride di una certa frenesia tassonomica che impone di separare un’espressione artistica dall’altra e si dice invece aperto, in pieno spirito Fluxus, ad una contaminazione di generi che ribalti l’autorialità e la ridistribuisca fra gli spettatori. Esattamente come quando, negli anni ’60, all’interno del Groupe Ecart, creava una serie di lavori “aleatori” che giocavano deliberatamente con i concetti di “autenticità” e “paternità” dell’opera d’arte.
Museion apre la nuova stagione espositiva con una sua personale, Plus ça change, plus c’est la même chose (Più le cose cambiano, più rimangono le stesse). Dopo il video Endless progettato per la facciata mediale del museo nel 2016 e la sua partecipazione a diverse esposizioni tra il 2005 d il 2007, il museo di Bolzano rinnova la collaborazione con quello che è considerato l’artista svizzero più influente della sua generazione.
Muoversi attraverso questa mostra permette di assistere ad un evento irrazionale organizzato, un “quadro vivente” o una sorta di pièce teatrale in cui stimoli sensoriali apparentemente slegati fra loro coesistono in armonia validandosi l’un l’altro. L’obiettivo non è la mescolanza fortuita dei media, ma l’abbattimento delle frontiere fra universi e discipline che abitualmente si ignorano. Un’operazione, questa, che allo stesso tempo mira a circoscrivere il lento ma decisivo passaggio di testimone tra la cultura d’élite e la cultura di massa: adottando materiali e processi industriali, gesti e segni quotidiani, Armleder arriva a creare una dimensione intermedia, quella del décor, capace di riunire dialetticamente mondi da sempre difficilmente conciliabili tra loro, come la cultura “alta” e quella “bassa”, la street art e la storia dell’arte.
Ai suoi occhi l’atto di decorare smette di essere un esercizio virtuosistico finalizzato ad abbellire una superficie per farsi strumento di lettura critica del reale. Perché è proprio nello stile che si concentra l’essenza di un’epoca, il suo meglio e forse persino un principio di resistenza a una società tecnocratica che minaccia di annientare la nostra creatività.
Al centro dello spazio espositivo troneggiano tre grandi impalcature, i cosiddetti “scaffoldings”: due, MONDO TIKI 1 (Scaffolding) e Gogo II, percorribili dal pubblico, hanno un ruolo “performativo”, mentre l’altra, Gogo III, arricchita con animali impagliati e piante vere, ha una funzione di dispositivo scenico ed è, tra l’altro, una citazione da una mostra dell’artista tenutasi al MAMCO di Ginevra nel 2005. Sarcastici, buffi o provocatori, sempre esuberanti, gli “scaffoldings” nascono più da una riflessione sull’arte e sulla sua natura, che sulle sue funzioni.
Intorno agli “scaffoldings” carte da parati riflettenti, variamente distribuite lungo le pareti e simili a specchi warholiani, costituiscono un vero e proprio rivestimento dello spazio espositivo nonché uno scintillante ed elegante tributo all’arte seriale del Ventesimo secolo. Armleder le ha adoperate anche in occasione della mostra Better, Quasi, tenutasi alla Massimo de Carlo nel 2017. Si tratta, in fondo, di una sorta di riciclaggio, un aderire a moduli artistici sperimentati e consolidati in passato: una forma diviene efficace solo nella misura in cui viene prelevata dal “grande supermercato delle forme” e reimmessa in una corrente di senso che sia valida ancora oggi e appetibile domani. Nella consapevolezza che l’artista può soltanto imitare un gesto che è sempre anteriore e mai originale, tutte le sue opere si configurano all’insegna dell’after e del remake, ma con un decisivo valore aggiunto. Il fatto di aver assistito in prima persona al fallimento di alcune delle istanze più rivoluzionarie del Modernismo, Sessantotto incluso, gli permette di considerare il passato con occhio asciutto e implacabile. “Come si può essere nostalgici dopo aver fallito e non essere riusciti a trasformare il mondo in un posto migliore? È semplicemente impossibile, una falsa pista”, afferma l'artista. Nemmeno la compilation che si sente in sottofondo, contenente musica hawaiana, dev’essere considerata come l’espressione di un sentire nostalgico, quanto piuttosto come l’ennesimo wallpaper, questa volta sonoro, creato ad hoc dall’artista per fondersi e confondersi con il brusio tipico dei luoghi affollati.
Plus ça change, plus c’est la même chose. Un titolo criptico, com’è nello stile di Amleder, ma anche vagamente familiare. Del resto, allo spettatore italiano non potrà sfuggire un’eco di quella che è forse la frase più citata e conosciuta del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. La storia è ciclica, i corsi e i ricorsi non sono l’invenzione chimerica di un oscuro personaggio del Seicento italiano e l’arte è sempre stata, sin dall’alba dei tempi, una variazione infinita intorno al tema del passato.