Palazzo Strozzi presenta la mostra “The Cleaner” di Marina Abramović
Organizzare all’interno di una storica istituzione italiana la mostra retrospettiva di un’artista che per anni ha lavorato in seno all’istante, alla transitorietà, in una parola, alla performance, potrebbe suonare come l’ennesima lotta contro i mulini a vento da parte di un sistema museale avido di sensazionalismi. Scegliere di salvaguardare una performance attraverso un’operazione di museificazione significa infatti, oggi forse più che in passato, esporla al rischio della sua sparizione. Tuttavia, è proprio grazie ai musei e alla loro quotidiana opera di mediazione documentaria, che oggi abbiamo ancora accesso ad alcune delle performance più significative della storia dell’arte.
Un’ampia retrospettiva a Palazzo Strozzi, la prima dedicata a una donna, testimonia le fasi evolutive della lunga carriera artistica di Marina Abramović, la “matriarca della performance art”. Un corpus di oltre cento opere tra video, fotografie, dipinti, oggetti e installazioni radunate per l’occasione si snoda attraverso gli eleganti e ariosi saloni quattrocenteschi del Palazzo. Ogni giorno, in fasce orarie prestabilite, vengono proposte delle riesecuzioni dal vivo di sue celebri performance da parte di un gruppo di attori formato e selezionato ad hoc. In programma sono Imponderabilia (1977), Cleaning the Mirror (1995) e Luminosity (1977) negli spazi del Piano Nobile o The Freeing Series. Memory, Voice, Body (1975) nella Strozzina. Imponderabilia, per esempio, storica performance dell'Abramović e del suo compagno Ulay, è riproposta fedelmente. Nudi, uno di fronte all’altro nel vano di una porta, i performer riducono lo spazio per passare a poco più di uno spiraglio sottilissimo. Per proseguire nella mostra bisogna infilarsi tra i loro corpi e scegliere verso quale dei due voltarsi. Se in passato il contatto con un pubblico spesso non preparato rischiava di tradursi in incomprensione, ostilità e persino atti amorali (si pensi a quando Rythm O, presentata per la prima volta nel 1974 a Napoli, degenerò in un’escalation di violenze sfrenate a danno della Abramović), oggi, nonostante la familiarità che si potrebbe avere con questi lavori, un lieve imbarazzo tradisce e la potenza dell’atto performativo si rivela intatta, esattamente come quarantuno anni fa. Articolandosi nello spazio liminale fra partecipazione attiva e voyeurismo, Imponderabilia scavalca le categorie e abbatte le tradizionali divisioni fra creazione e ricezione, artista e fruitore. Dopo aver preso consapevolezza del proprio corpo in relazione a quello dei due performer e allo spazio circostante, quasi che si trattasse di un rito di iniziazione, si è pronti per affrontare le sale successive. Frammenti di performance riprodotti in loop dialogano serratamente con alcuni degli oggetti-reliquie impiegati dall’artista nel corso degli anni per riflettere sui concetti di meditazione e trascendenza. Liberati dallo statuto di sculture, i Transitory Objects (1995-2015) sono dispositivi energetici, realizzati con materiali come il quarzo e l’ossidiana che testimoniano il viaggio di ricerca intrapreso dalla Abramović e da Ulay negli anni Ottanta. Appartenenti a questo stesso periodo sono opere come Nightsea Crossing (1981-1987), in cui i due rimangono immobili l’uno di fronte all’altra per ore e Nightsea Crossing Conjunction (1983), che mette in contatto le culture aborigena e tibetana. La fine del loro sodalizio sentimentale e professionale viene suggellata nel 1988 con la performance The Lovers, in cui i due artisti si incontrano per dirsi addio a metà della Grande Muraglia cinese, dopo aver percorso a piedi duemilacinquecento chilometri ciascuno, partendo lei dall’estremità orientale e lui da quella occidentale. A un certo punto della mostra, i video assumono tratti ossessivi, si caricano di pathos, una certa pesantezza ritualistica e ricorrenti rimandi alla morte. Scandagliando il passato personale dell’artista, performance quali Balkan Baroque (1997), The Hero (2001) e Balkan Erotic Epic (2005), arrivano a interrogare le radici più profonde della cultura balcanica: qui la Abramović assume un ruolo simil’ sciamanico di colei che, rifiutandosi di ideare e presentare lavori consolatori, compiaciuti e gradevolmente estetizzanti, si impegna a guarire le ferite di un corpo sociale dilaniato dal dramma bosniaco negli anni Novanta. La sofferenza reale e pubblica dell’artista diventa un vettore di comunicazione che implica da una parte una situazione esistenziale e dall’altra una congiuntura politica problematizzante al massimo. L’enigmatico titolo della mostra, The Cleaner, si presta ad un ventaglio di letture diverse, tutte legate l’una con l’altra. The Cleaner è la Abramović colta nell’atto di ripulire la sua memoria per distillare solo l’essenza di un percorso creativo durato cinquant’anni. Ma The Cleaner è anche quello che resta, il residuo, la figura ectoplasmatica sospesa fra artefatto e artefice, quando l’uno è stato esposto e l’altro comincia a dileguarsi. Perché in fondo l’opera era tutto ciò che aveva, sangue del suo sangue e ora non ha più senso ingombrare la scena. “Il mio lavoro esiste fuori me”, dice lei. Ed è veramente così.