Milan Grygar
Da quando ha iniziato a disegnare Milan Grygar sentiva il suono di quello che tracciava, i rumori, il brusio, così, cominciò a registrarli, a metterli su nastro. Grygar, in effetti, registra il suono di tutto quello che fa. Sarà perché è cresciuto vicino alle stazioni (il padre lavorava per una compagnia ferroviaria), che ha sempre avuto una certa sensibilità per il senso dell’udito. “Sono arrivato alla conclusione che ciò che prevale nel mondo è la correlazione: il suono è connesso alla visione, e la visione non può esistere senza suono. Tutto ciò che un essere umano fa è connesso: i fenomeni visivi e acustici sono complementari”. Per circa mezzo secolo, a partire dalla metà degli anni Sessanta, l’artista ha lavorato alle sue opere fra la Slovacchia e Praga, cercando di ricongiungere i due sensi che l’arte occidentale ha spesso separato. A Bologna, la P420, ospita la sua seconda mostra personale con le sue opere più recenti: tele di grandi dimensioni della serie Antifone e acquerelli su carta, dittici con composizioni geometriche minime o monocromi - prima con colori cupi, negli ultimi anni con colori sempre più accesi. Un orizzonte visivo, sulla scia di uno dei suoi geni affini, John Cage che, prima di morire, ad una conferenza a Bratislava, ad una domanda del pubblico che faceva più o meno così “cosa connette le arti visive con la musica?”, lui risposte: l’orizzonte.
Valeria Montebello