Lo abbiamo sentito ripetere innumerevoli volte: le divisioni fra le arti non esistono più. È diventato quasi superfluo chiedersi se con una stessa definizione, ovvero quella onnicomprensiva di arte, si possano riunire insieme le più disparate espressioni della creatività umana. Attraverso le esperienze cruciali dello Jugendstil e del Bauhaus, le arti applicate hanno cominciato ad assumere una forma più precisa, uno spessore netto. William Morris, il più convinto fautore dell’“artigianato artistico”, provò a realizzare in prima persona il sogno utopico di far rivivere un medioevo idealizzato. Nel tentativo di salvare una manifattura e una tradizione formale agonizzanti, aprì diversi laboratori e si specializzò nella produzione di oggetti unici nel loro genere. Ma se le intenzioni originarie di Morris miravano a una riforma totale delle condizioni sociali, la rarità dei suoi prodotti li rese inaccessibili alle masse. Ed ecco che, quasi un secolo dopo, a Berlino, la coppia Durham-Alves dà vita a un collettivo di design, LABINAC. Jimmie Durham, artista americano di origini Cherokee e Maria Thereza Alves sono due artisti che hanno unito le loro forze, nel lavoro come nella vita, mettendo a frutto le esperienze di un passato nomade speso tra New York, Messico, Marsiglia, Roma, Napoli e Berlino. Gli oggetti prodotti da LABINAC non sono statici, ma sembrano scivolare nello spazio senza scomporlo, stringersi in un nodo per poi separarsi di colpo, lasciando affiorare l’andamento di forze interne e oscure, la purezza di una linea. Attraverso un approccio inclusivo e una volontà tassonomica di comprendere la realtà circostante, il loro lavoro si dimostra evocativo della cultura di provenienza di Durham: legno, colori, ossa di cavallo o di mucca, pietre e decorazioni di vario tipo sono gli elementi costitutivi di una sintassi intrisa di ironia ma allo stesso tempo consapevolmente critica. In un perpetuo gioco di specchi fra cultura e natura, l’occhio si ferma su certe forme di vita per così dire “devianti”, primordiali, di arcana bellezza. Oggetti che a fatica troverebbero una collocazione nelle vetrine di un museo etnografico vengono impiegati dalla coppia come strumenti con cui decostruire gli stereotipi della cultura occidentale e ritessere il legame interrotto con il mondo naturale. Alla base di questa operazione c’è il tentativo di liberare la materia, lasciarla essere in tutta la sua naturalezza, talvolta passando per la deformità e l’eccesso, ma sempre con cura, per non perdere mai di vista la fonte di tutte le cose, che è prima di tutto, in senso quasi platonico, l’idea. Alves maneggia il vetro con la stessa delicatezza dei maestri soffiatori di Murano; ne rispetta l’esuberanza, i guizzi, l’imprevedibilità, per dare vita a vasi dai contorni sfuggenti. Non è un caso se il vetro era anche uno dei materiali prediletti dallo Jugendstil. Anche Durham, dal canto suo, non resiste al fascino di questo materiale e lo utilizza mescolandolo a frammenti di lavori più vecchi, anch’essi in vetro di Murano, per costruire lampadari e plafoniere. Detestando l’arte in alta uniforme, l’arte agghindata, egli tiene in grande considerazione i valori della naturalità: capriccio, imperfezione, istinto, passione. I procedimenti che conducono alla progettazione di decorazioni ed elementi architettonici sono ben diversi da quelli che definiscono la composizione di un’opera d’arte. E questo la coppia Durham-Alves lo sa bene. Ma “La Terra va ben oltre i nostri preconcetti e i nostri schemi”, dice Alves, “e la vita estetica è una vita degna di essere vissuta”. Il ricavato delle vendite di alcuni di questi prodotti andrà a risolvere le criticità finanziarie di una serie di studenti brasiliani. “Poche centinaia di euro possono veramente cambiare la storia di queste persone”, dice ancora Alves. Un secolo dopo, a Berlino, l’utopia sociale di William Morris tenta con altri mezzi e per vie traverse di porsi al servizio della comunità, gettando un ponte tra l’universo naturale e il mondo dell’arte.