Julia Scher
Foto Mathias Schmitt
Da sempre il colore rosa è considerato la quintessenza della femminilità, principio consolidatosi anche grazie alla Barbie, dal 1959 con logo e divisa total pink. Julia Scher lavora su questo stereotipo, portandolo quasi all’assurdo, vestendo con uniformi rosa le sue guardie di sicurezza. «Se negli anni 80 “Security by Julia” creava una reazione umoristica, oggi si è andato perdendo il tono ironico della performance. La tecnologia all’epoca non era in questione, mentre oggi, se vedi del personale in divisa - anche se vestito di rosa - non ne metti in dubbio l’autorità perché ormai il mondo è talmente insicuro che la questione si è spostata dall’ironia alla paura». Da fine anni 80, Julia Scher è stata una pioniera nella ricerca artistica sui sistemi di controllo e sorveglianza, riflettendo sul tema non solo in maniera speculativa ma creando degli scenari nei quali far emergere costrutti e dinamiche che spesso non sono percepite come tali perché insite nel fare comune. È stata tra le prime a usare l’internet come strumento artistico a metà anni 90 con “Securityland” e a riflettere sullo schermo come mezzo di comunicazione: «La prima volta che ho usato uno schermo ci voleva mezz’ora per il download di un file, ricordo che provavo un piacere indescrivibile nel guardare l’immagine scaricarsi e caricarsi, era qualcosa di magico.
Oggi invece si cerca un godimento immediato delle immagini». Nata a Hollywood nel 1954 non è difficile pensare come l’artista sia cresciuta con una passione sfrenata per gli obiettivi e le videocamere, lei stessa racconta di aver subito il fascino degli studi cinematografici della San Fernando Valley dove da un lato sorgevano i grandi lodges in cui venivano costruiti i set e girati i film, e dall’altro assemblavano gli aeroplani. La fascinazione per questi luoghi risente anche dalle architetture: «I magazzini mi hanno sempre affascinata, le persone entravano ma non sapevo bene cosa facessero, da bambine volevamo scoprire cosa c’era all’interno. Nessun tipo di studio è mai stato a livello di questi spazi, anche dal punto di vista tecnologico». Professore dal 2006 della cattedra in Multimedia and Performance/Surveillant Architectures all’Academy of Media Arts di Colonia, Julia Scher ha stabilito il suo primo studio in città nel 2011 e lì ci è rimasta per cinque anni.
Oggi il suo spazio di lavoro è un edificio d’inizio ’900, che durante la seconda guerra mondiale era adibito all’accoglienza di poveri e abbandonati. Bombolette, scatole, foto, libri, videocamere e uniformi dipinte di rosa, assemblate ovunque in un disordine apparentemente ordinato. Della California la Scher ha portato con sé la luce, mentre dalla sua finestra gode del verde europeo «impagabile rispetto al deserto di L.A.». Da un’infanzia passata davanti alla tv ha maturato l’idea di sequenza, di taglio e montaggio di spot pubblicitari del quale sente di essere passivo spettatore, senza alcun controllo. Da qui il suo interesse a usare la tecnologia per creare immagini e significati sul controllo e la produzione del sapere, come nel caso dei girati delle camere di sicurezza che in alcuni casi la Scher monta in diretta assieme a materiale pre-registrato. «Ciò che mi affascina è il modo in cui è possibile produrre lo spazio per un’esperienza che combini assieme elementi reali e fittizi. Tutto ciò ha molto a che vedere con la questione delle fake news esplosa qualche anno fa, ma all’epoca il tema non si poneva, lo schermo seduceva chi osservava perché permetteva di immaginare il proprio riflesso, l’immagine che si ha di sé e della propria vita. In un certo senso la tv agiva come uno specchio, perché guardandola ci si riconosceva.
Oggi i social media hanno preso il suo posto e hanno a che fare con l’istinto ancestrale di godere della propria immagine. Sono pratiche che ci fanno stare bene». Se nel passato gli oggetti tecnologici erano progettati per darci piacere, oggi i meccanismi di seduzione si stanno spostando a livello sempre più intimo, sono meno visibili e più confortevoli. Come già l’artista scriveva nel 1992 nel saggio mai pubblicato “The screen as a site of control” il design della tecnologia diventa sempre più morbido e curvo per adattarsi meglio ai nostri corpi. Il tema del controllo nella sfera intima e privata affrontato in opere come “Always There” (1994) o “Surveillance Bed” (1995) si è evoluto con uno studio sul piacere voyeuristico e sul tema della “surveillance creep”. «Oggi esiste un gradiente dei privilegi per l’accesso ai contenuti su internet, ci sono osservatori con ruoli diversi che partecipano all’espansione delle immagini, ma io sono più timida di prima, non condivido foto personali sul cellulare, e la cosa più inquietante è che nessuno ti avvisa dei rischi». Per concludere con le parole del direttore del Whitney Museum Adam D. Weinberg, dal catalogo della mostra “Astro Noise” del 2016: “L’arte è una possibile risposta alla sorveglianza totale, non soltanto perché la smaschera; caratteristiche dell’arte come la casualità, l’ambiguità, l’illogicità, l’anarchia, l’imprevedibilità e tutte le operazioni incentrate sul caso sfidano i sistemi oppressivi basati sulla struttura e sul controllo”.