Joan Jonas
Foto di Colin Leaman
New York è la sua città, dov’è nata nel 1936 e dove tutt’ora vive in un loft che è anche il suo studio dal 1974, a Mercer Street nel quartiere di SoHo nel Borough di Manhattan. Disordinata, ma abile nel destreggiarsi tra gli oggetti della sua collezione, da più di quarant’anni Joan Jonas lavora circondata da immagini sempre diverse, fonti d’ispirazione per i progetti ai quali lavora. Maschere, animali impagliati e statuette, fotografie, disegni, oggetti di scena e altri elementi presenti nelle sue performance, sfilano nello studio. «Gli animali rappresentano una parte importante del mio lavoro, sono in connessione sia con la mitologia sia con la narrativa, discipline per le quali sono sempre serviti a identificare caratteri dell’essere umano». L’aspetto spirituale e simbolico ha sempre interessato la ricerca di Joan Jonas, realtà e mondo fantastico coesistono in opere come “The Juniper Tree”, “Volcano Saga” e “Lines in the Sand”, nelle quali mito e letteratura si fondono.
Vero e proprio laboratorio di progettazione, lo studio è principalmente adibito all’ideazione: molti i disegni e le mappe concettuali che l’artista compila e lascia in consultazione attorno a sé
Gli animali, in particolar modo il cane, giocano un ruolo importante in questa trasposizione del fantastico: «Il cane è una presenza mitica. Ozu è il mio terzo cane, i primi due si sono visti molto nei miei video nel corso degli anni e rappresentano semplicemente se stessi, non sono dei personaggi, si comportano come se sapessero quello che fanno e come farlo. Per la storia dell’arte non è una novità, i cani appaiono in dipinti di tutti le epoche». Ispirata da un’idea di mito propria al teatro Nō giapponese e all’arte teatrale della Grecia classica, la collezione del suo studio accoglie moltissime maschere di diversa fattura e soggetti, agenti simbolici di trasmissione tra i mondi capaci di catturare le forze della natura e dell’umano. Volti in cartapesta di volpi e conigli sbirciano dal quinto piano di Mercer Street assieme alle silhouette di un coyote impagliato e di un gabbiano scolpito nel legno. Vero e proprio laboratorio di progettazione, lo studio di Joan Jonas è principalmente adibito all’ideazione dei progetti, molti i disegni e le mappe concettuali che l’artista compila e lascia in consultazione attorno a sé. Dagli anni 60 sperimentatrice di video e performance, spesso realizza installazioni spaziali su larga scala che richiedono temporaneamente l’uso di spazi più ampi.
Questo il caso del progetto ideato per il padiglione US alla Biennale d’Arte di Venezia del 2015, “They come to us without a world”, ispirato alla lettura del libro di Halldór Laxness - scrittore islandese tra i massimi cantori della natura e della civiltà del suo paese, premio Nobel nel 1955 - “Under the glacier”. «Il mio lavoro si è sempre interessato agli animali, alle creature viventi e alla natura in generale. Ho iniziato a leggere Halldór Laxness negli anni 80 ma solo in seguito ho deciso di lavorare sul suo libro, con i suoi scritti poetici dedicati alla natura. In Islanda non puoi ignorare la natura, non fa solo parte del paesaggio ma della psiche delle persone, è una questione oggettiva. La prima cosa che ho pensato leggendo questo libro è che oggi i ghiacciai si stanno davvero sciogliendo, ma negli anni 60 la situazione era completamente differente, era una preoccupazione ma non così reale. Questo libro mi ha portato alla consapevolezza dell’ambiente in modo più concreto».In “They come to us without a world” le cinque sale del padiglione americano erano investite da videoproiezioni, specchi realizzati artigianalmente a Murano e vecchie perle di cristallo veneziano, allestiti assieme a disegni e oggetti di scena. Video e specchi sono elementi caratteristici del lavoro di Joan Jonas sin dagli esordi, entrambi media riflettenti a risposta immediata: «All’inizio l’uso di specchi e monitor era legato all’idea di narcisismo come tabù, oggi invece non m’interessa più questo tipo di esplorazione del sé.
«Ho sempre voluto esplorare la tecnologia come mezzo riflettente, mi interessa il modo in cui interagisce col sé e con l’immaginazione»
Ma ora come allora ho sempre voluto esplorare la tecnologia come mezzo riflettente e il modo in cui interagisce col sé e con l’immaginazione». Dalla Sony Portapack acquistata in Giappone nei primi anni 70 alle più recenti GoPro, negli ultimi cinquant’anni le possibilità tecnologiche inerenti al video hanno subito diverse evoluzioni ma l’approccio è lo stesso: relazionarsi al mezzo come risposta visiva. «I miei primi video si riferivano a un linguaggio sviluppato dagli studi in storia dell’arte e in pittura, erano come dei tableaux vivants. Il Rinascimento mi ha sempre affascinato, in particolare Piero Della Francesca». Dall’iconico “Wind” (1968) girato nelle spiagge di Long Island, i “Mirror Pieces” (1969) ideati attorno a coreografie e all’uso di specchi e “Organic Honey’s Visual Telepathy” (1972) che per primo introduce il video nel video, passando per opere ispirate alla letteratura come “The Juniper tree” (1976) basata sulla fiaba dei fratelli Grimm e “Volcano Saga” (1985/1994) tratta da una favola islandese, Joan Jonas ha sempre integrato il suono con l’immagine in movimento con effetti e composizioni realizzate da musicisti di fama internazionale, come Alvin Curran, Alvin Lucier e Jason Moran. La collaborazione con quest’ultimo, che conta opere come “The Shape, the Scent, the Feel of Things” (2004/2007), “Reading Dante” (2008/2010) e “Reanimation” (2012), l’ha cercata con determinazione: «Volevo un musicista che collaborasse al mio prossimo lavoro, una mia amica mi ha parlato di lui, sono andata ad ascoltare un suo concerto proprio con l’intento di conoscerlo. Così è nato il progetto». Il 14 marzo inaugura alla Tate Modern di Londra la sua prossima retrospettiva con cinque grandi installazioni e diverse performance tra le quali anche una nuovissima che sarà presentata a maggio. Poi, chissà, magari anche una pausa o una vacanza? «Nel tempo libero mi piace andare al cinema, passeggiare col mio cane, andare al museo o incontrare i miei amici».