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Valentino TKY

“...in Giappone il corpo esiste, agisce, si mostra, si dà senza isteria, senza narcisismo, ma in accordo con un puro progetto erotico. Non è solo la voce a comunicare, ma l’intero corpo ...è l’intero corpo dell’altro a essere stato conosciuto, assaporato, ricevuto e che ha mostrato la propria narrazione, il proprio testo”. Roland Barthes, L’impero dei segni, 1970
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Pierpaolo Piccioli di Valentino ha invece immaginato un Giappone dialogante con il Rinascimento italiano, due mondi così lontani e al tempo stesso affini, entrambi devoti al culto dell’armonia e del dettaglio, eppure molto affascinati dal nuovo e dall’altro. Due culture così vicine tra loro ma separate da quell’inviolabile spazio architettonico simbolico che in Giappone si definisce ma. Nella lingua italiana ma è una congiunzione, dunque unisce, mentre nella versione giapponese divide, separa. TKY di Pierpaolo Piccioli gioca proprio sull’ambiguità dei due termini. Gioca con il vuoto e con la congiunzione, riunendo in una strada a doppio senso la qualità dell’artigianato italiano con quella espressa dai maestri giapponesi in differenti discipline.

L’obiettivo di TKY è anche quello di assorbire l’energia conflittuale e ipnotica del Giappone contemporaneo, dove una cultura dell’adolescenza senza età fa del passato una bicicletta da corsa con cui correre verso il futuro attraversando il presente. TKY evidenzia l’idea che attraverso differenze abissali e fraintendimenti, due linguaggi diversi possano crearne un terzo persino più preciso e affascinante. Un linguaggio visivo denso di sperimentazione e perfezione assoluta.

 

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