Fino all’8 novembre alla Federica Schiavo Gallery di Milano si può visitare Palookaville, la città in cui vivono i mediocri e gli incompetenti, qualcosa che Italo Calvino avrebbe definito un mero regno infernale: è il punto zero di un corpo in cui al posto del cuore c'è una cassa che emette scontrini a profusione. Palookaville è l'eterotopia per eccellenza degli anni Cinquanta e si nutre di consumismo, quindi di umani passivi che si lasciano disumanizzare, di oggetti digitali ai quali doniamo i nostri occhi e le nostre mani. Da qui sembra iniziare Todd Norsten nella costruzione del “sistema Palookaville” che sorregge l'omonima mostra, carica di minimal, pop, e trompe l'oeil. L'artista riflette sulla trasformazione del nostro modo di consumare quando vogliamo procurarci degli oggetti capaci di farci esprimere: dall'inchiostro e dalla personalissima ortografia di ciascuno si è passati alla tastiera, madre della ortografia standardizzata. Oggi ci sembra naturale chiedere l'indirizzo di posta elettronica e non quello di casa: voce del verbo cliccare. Quasi mai ci si trova ad aspettare per settimane una lettera, rischiando di non poterla neppure leggere interamente a causa della pessima scrittura del mittente. In "Never happens" (2018) si legge - di tutte le cose che non succederanno, questa è quella che non succederà più - e Norsten fa riferimento proprio al timore di non vedere più nessuno raccogliersi nella propria intimità. Sentire la necessità di restituirla ai propri simili incidendo le iniziali di un nome su un tavolo di legno, usando gli acquerelli per fare un autoritratto sulle pareti di una sala da pranzo o comprando un'agenda al posto di scaricare un'app. È interessato a questo tipo di impulso al quale l'uomo non riesce più a rispondere semplicemente come fa con la fame o con la sete. Tale difficoltà è il fertilizzante della mediocrità, prima americana e poi europea, e tema di opere come The american dream (2016) o Our edit life (2018). Nella prima si può vedere un recipiente, che è pure un albero tagliato a metà, senza radici, la cui etichetta recita - the american dream. Difficile non pensare allo stile di vita americano e al suo non nascondere nulla che inviti a scavare in profondità, come un albero senza radici. La seconda è uno sfondo bianco sul quale è scritto - our edit life, ma non viene indicata la direzione del cambiamento. Con questi lavori siamo catapultati sullo sfondo nero dove Norsten disegna una scala che non porta da nessuna parte o, al massimo, porta a venire schiacciati fra le parole dell'opera su cui leggiamo - la fine è di nuovo a portata di mano. Fine dell'impulsività e della spiritualità tradotta nel bianco e nero di "Rays of positivity" (2018) e nei volti stanchi della domenica: pochi a contemplare il senso dell'esistenza, tutti gli altri davanti alle vetrine di certi negozi d'informatica. A “Se il Sole muore” di Oriana Fallaci, reportage dal finale disposto a dare fiducia ai viaggi nello spazio, probabilmente Todd Norsten preferirebbe la visione di una puntata di “Black Mirror” in cui si mostrano gli effetti negativi di alcune tecnologie.